Москва́ – Mosca
Una notte, 750km di sonno, interrotto solamente dal ferro che frigge sulle rotaie. E da qualche parola bofonchiata nel mezzo del buio dai miei russi uomini d’affari. E poi è Mosca.
Due arrivi lontani, nel 2004 e poi di nuovo nel 2010. Gli anni ti solcano, e smussandoti il cuore e accorciandoti la vita, hanno inoltre la capacità immensa di riproporti un medesimo paesaggio umano e geografico in modo distante, diverso. Niente ordine logico, per descrivere questo ciclopico centro focale della Grande Madre. Dalla scatola traballante della memoria, un flusso di visi, e odori, e rumuori, e scosse.
Rimbomba in testa una canzone di Guccini,
“Mille e mille occhiaie vuote, e mani magre abbarbicate ai fili, e angoscia d’anni dove il niente è tutto.
Quando li vedi, dentro le stazioni della metro, capisci che la nostra noia sembra davvero quasi un rutto davanti a quelle faccine scavate. A volte si nascondono, nei tubi della metro, e quindi ti dimentichi che migliaia di bambini sono lì, come il lato buio della nostra mente, come qualche cartaccia che ti può sfuggire. Succhiano dei sacchetti di plastica, pieni di colla, che è una droga che annulla il senso di fame e sete, e rade al suolo la possibilità di poter vivere l’infanzia.
Ed in quelle stazioni affascinanti come sale da ricevimento, del 2004 rimbomba anche un altro ricordo atterrito: l’attentato alla fermata Riskaia. La telefonata, allibita dei miei genitori, che mi urlano, alla vigilia della presa di Breslan, di togliermi da lì, di uscire da sottoterra, e di non prenderla, la metro, perché c’era stato un attentato, e io dovevo vivere. Guardo la cartina, e mi rendo conto di essere a quel punto 6 fermate prima della Riskaia. 6 fermate di respiri, di risate, di vita che continua. Una donna kamikaze uccide 10 passanti, il 31 agosto 2004. In quella stazione, ci sono passata due giorni dopo, fuori, all’aria aperta, e mi ricordo una scarpa. Lasciata in un angolo. Sporca di sangue. In un attimo di rabbia mi veniva da urlare, “Siete proprio stronzi allora! Avete pulito tutto, e quella, però, non l’avete tolta, eh? perché non gliel’avete data indietro, quella! Magari la cercano”. Quando perdi qualcuno, lo cerchi negli oggetti, lo cerchi nei vestiti che si è lasciato dietro. Il giorno dopo era già Beslan. E la storia rilascia dietro di sè soltanto una scia nauseante, che cola, scura e grassa.
E poi un rabbino. I miei passi atei incerti, la sinagoga illuminata a giorno per me. Nella testa la voce di questo religioso, che ripete che tutti erano benvenuti, lì. Il sorriso morbido, la parlata rilassata di chi ha vissuto le prove portate da un dio benevolo ma a tratti distratto. Le persone spirituali come lui guidano le possibilità di un mondo migliore, meno ansioso, più completo. Divide pane e formaggio con me, sulle scale di fronte alla sua fede.
E guardando il cielo moscovita lo vedi, lo senti quasi pulsare, prima, il Cremlino, al centro della città, simbolo del potere politico russo ed una volta paradossalmente epicentro della chiesa ortodossa. Da questi 2 km e mezzo di mura, nelle danze della storia, dittatori, zar, e presidenti hanno indirizzato il meglio, o il peggio di questa nazione, protetti dalla stella in puro rubino che risplende sulla Piazza Rossa, o Красная площадь. Una volta la chiamavano Požar, perché spesso lì gli edifici in legno bruciavano; poi è diventata Красная, che in russo vuol dire sia “rossa” che “bella”.
E la bellezza infatti lì ti avvolge, e ti fa tremare le gambe perché La Storia lì ci è andata spesso a passeggiare: hai San Basilio davanti a te, e ti aspetti che Ivan Il Terribile torni, all’improvviso a festeggiare nuove conquiste kazake; e poi la piramidale tomba di Lenin. Si dev’essere sentita sola, la sua mummia. Ci hanno aggiunto nel corso degli anni altri focali pezzi di puzzle storici, come Stalin e Jurij Gagarin. Immaginateveli un attimo, i tre. Un bicchierino di vodka, dopo decenni di immobilità racchiusi in scatolette simili a quelle del tonno, che si sgranchiscono la schiena, e stupiti si chiedono: “Ma Chruščёv? Dov’è? Non sarà mica ancora impegnato con quei missili cubani?”. A quel punto, una donna, con forti sopracciglia rivoluzionarie e che sembra saperla lunga su aggeggi militari ed affini, sbuffa e dice spazientita “Vladimir, quante volte te lo devo ripetere. Chruščёv è non è in ritardo, lui è a Novodevičij. Gogol, Checkov, Majakovsky, Einstein e Prokofiev dicono che si sta comportando bene. Non gioca più coi missili, nè coi papi”. “Grazie Nadežda, per fortuna che tu sei qui, invece, nell’eternità insieme a me. Cosa sarebbe il mondo senza le donne?”. Zitti, sss sss. E’ ora di fare silenzio, mugugnano le tetre guardie.
Di fronte, lo spettacolo varia, di botto. Il GUM, 80 mila metri quadri di boutique eccelse, dal tetto in vetro, ritrovo di quella fetta di popolazione russa che gira in limousine dai cerchioni dorati. Dei bambini con lo sguardo svuotato, qui, nemmeno l’ombra. Ed è strano pensare che queste mura ornate, una volta rappresentassero il luogo di distribuzione dei beni di prima necessità, ed oggi, invece siano invece il luogo dove “you can make your shopping” come viene annunciato in un inglese ballerino sul sito ufficiale
http://www.gum.ru/en/.
La parte di Mosca che rimbomba di più nella mia memoria è Kitay Gorod, il quartiere dalle strade strette ad est della Piazza Rossa, e una delle parti più antiche della capitale. Nata nel 13mo secolo come centro di commercio, Kitay Gorod è raggomitolata tra mura quadrate, sei metri per sei. Un gioiello dentro un altro gioiello.
Ho in testa un’immagine straziante, romantica come solo la Russia riesce ad essere: studenti di architettura seduti per terra tra la casa editrice Synod, dove venne pubblicato il primo libro russo nel 1536, ed il Monastero del Segno in via Varvarka, con le cupole brillanti d’oro immerse nel tramonto. Osservano i dettagli delle guglie, impossibili da riproporre sul foglio anche per carboncini esperti, e sognano un futuro da Renzo Piano, forse, fuori da qui. Oppure no, forse sognano semplicemente un futuro fatto di famiglie precoci, ed una macchina, e il pane e il latte fresco al mattino che la vita è semplice, e preziosa per questo. C’è una macchina scassata, nella mia memoria, a completare quest’immagine.
Mosca sta per finire, e tra poco inizierà uno dei tragitti più lunghi della mia Transmongolica, verso Perm. Yaroslav Vokzal, uno dei nodi focali per i viaggiatori verso la fine della rassicurante Europa, si ricollega al sorriso incerto di Katarina che prima di cominciare a parlarmi in un inglese corretto come un mio calcolo matematico, scruta il mio improbabile zaino e i miei capelli corti. 22 anni, 2 figli, un marito che sembra volerle molto bene. La prima cosa che mi chiede è dov’è, il mio, di marito. Sconvolta dalla notizia che io un marito non ce l’ho, né probabilmente ce l’avrò mai, passa a confermarmi che sono vecchia. Anzi, mi correggo, troppo vecchia ormai per cercarmelo un compagno. Continua, con fare pratico, ad elencarmi le cose che un uomo può fare per una donna: portare la valigia, o difenderti, in caso qualcosa andasse male, sul treno ad esempio. Oppure aggiustare la macchina, in caso si rompesse in mezzo alla steppa siberiana. Oppure dirti che sei bella.
Ha ragione, Katarina?
Ed io che pensavo di essere nella parte più rigogliosa della mia vita, a trent’anni, libera come un fiume! Passa poi a chiedermi come mai ho i capelli così corti. Le dico che i capelli li ho quasi sempre avuti così corti. Lei ride e mi dice che suo marito una donna come me, che sembra un po’ un ragazzo, non la guarderebbe mai, quindi secondo lei forse è per quello che non ce l’ho un compagno. A snocciolarla così, la nostra conversazione sembra quasi un’accusa nei confronti di Katarina. Tutt’altro: il viaggio, questo ma poi tutti i timbri sul mio passaporto e nella mia mente, sono in fondo soprattutto queste conversazioni, questi ponti che ti conducono là dove i valori della vita, ed i canoni della bellezza variano.
C’è una frase di T.S.Eliot, con cui voglio chiudere questo giro nei ricordi moscoviti.
“La fine di tutto il nostro esplorare sarà giungere dove siamo partiti, e conoscere il posto per la prima volta.”
Viaggiamo attraverso le idee di chi incontriamo sui treni, sugli aerei, nelle tavole calde dall’altra parte del mondo, e discutiamo di questi punti di vista, e sappiano sicuramente che alla fine di tutto, saremo persone migliori, più ampie. La tolleranza viene costruita così. La pace si costruisce attraverso gli occhi di chi vede la vita in modo altro da noi.
Mosca finisce.
Tra poco sarà Siberia.
raccconto toccante e foto sempre più belle…e buon compleanno!
Marty