Spagna

Alicante

Che strana la memoria

In Spagna non c’ero mai stata veramente prima di arrivare ad Alicante. Certo, più di vent’anni fa, avevo passato un weekend a Barcellona davvero movimentato, culminato con una rapina ai danni dell’amica con cui viaggiavo. Che strana la memoria: non ricordo nulla di quel fine settimana, tranne l’agitazione della poliziotta che aveva preso la denuncia della mia compagna di viaggio, la caserma coi muri umidi.

E poi sì, in una vita lavorativa davvero precedente a quella che sto vivendo ora, ero stata un pomeriggio e una notte a Madrid: della capitale ricordo anche meno. Anzi nulla. Di certi viaggi si dimentica tutto, e forse è davvero meglio così, se il palcoscenico è solo l’ennesimo hotel, l’ennesima sala riunioni. Quindi, Alicante è stata la mia prima volta reale in Spagna. Ci sono arrivata a mezzanotte, con un volo tranquillo e un aereo carico di gente. Agli “arrivi”, il caldo piacevole di metà maggio e una fila interminabile di gente che aspetta un taxi. Qualche italiano qua e là. Qualche scandinavo. In realtà sono quasi tutti britannici o russi. Le persone scappano dalle guerre, ma fuggono anche dalle scelte quotidiane prese per molti di loro da parte dei propri governanti.

25 maggio 1938

La prima mattina ad Alicante mi siedo a fare colazione in un bar a caso, il primo che trovo in mezzo agli enormi palazzi che sembrano strangolare il centro città. Nel mio spagnolo che non esiste chiedo alla proprietaria cosa si mangia qui al mattino: mi risponde una signora che deve parlare le lingue impossibili, e mi dice che ad Alicante la colazione è soprattutto la tostada con tomate. Mentre aspetto, guardo come sempre la gente che va e che viene sotto la pioggia, gente dello stesso quartiere che si conosce, si scambia due scemenze e ride, e gli immancabili britannici che cercano un maggior senso di libertà, forse, lontani da una Brexit impossibile da pensare e da sostenere. O forse cercano solo una vita davanti al mare.

Dal baretto, vado al Mercado Central. Davanti ad una delle varie entrate, per terra c’è una scritta che ricorda le vittime di un bombardamento aereo che qui i fascisti italiani hanno regalato alla popolazione il 25 maggio del 1938: durante la Guerra Civile Spagnola, infatti, l’aviazione fascista italiana sgancia 90 bombe sulla città. Di queste, quelle che cadono sul Mercado Central, uccidono 300 vittime civili. Di questo episodio, ovviamente, io non ho mai sentito parlare prima di arrivare qui: a raccontarmene i dettagli, è un orologio – conservato in una teca in una sezione laterale del mercato – che smise di funzionare alle 11.19 proprio di quella data. Quest’oggetto – come spesso accade nei conflitti – diventa quindi una testimonianza muta e silenziosa del massacro, della stupidità e della cattiveria dell’umanità. A darmi altri dettagli di questo pezzo di Storia sconosciuto, è una grande sirena – anch’essa conservata nella stessa parte del mercato: fino all’inizio della Guerra Civile Spagnola, avvertiva i civili dell’avvicinamento degli attacchi aerei. Purtroppo, il 25 maggio 1938 non fu in grado di rilevare la posizione dell’aviazione fascista italiana che si trovava già sopra alla città: la sirena suonò quindi per l’ultima volta soltanto al cadere delle prime bombe.

Il Mercado Central ora è vivo, pulito, colorato, e molto ordinato. I banchi, dentro, sono divisi per area alimentare: pesce, frutti di mare, e crostacei; uova; carne e affettati; verdura e frutta. E’ un piacere gironzolare in mezzo a tutta questa abbondanza, in questo enorme quadro vivente: le esistenze che si incrociano e la quotidianità, fare la spesa, godere delle piccole azioni, mentre qui poco meno di cent’anni fa cadevano le bombe e c’era solo paura. Todo cambia.

Barrio de Santa Cruz

Il Barrio di Santa Cruz se ne sta attorcigliato proprio sotto alla Rocca di Santa Barbara, l’antica fortezza moresca occupata poi dagli Spagnoli cristiani e riconvertita in castello cattolico. Non c’è nessun viaggiatore quando ci arrivo nel tardo pomeriggio: piove e sono tutti al riparo, ma l’aria è calda e mi ricorda di un’estate che non sembra davvero voler arrivare nemmeno qui. Le calli sono piccole e strette, una l’hanno dedicata a Dean Martin, un gatto nero poco socievole scappa via, mentre un altro – un po’ spelacchiato – dormicchia davanti a una finestra aperta. Ogni abitazione ha vari elementi colorati che creano una commistione di tanti elementi: cristiani, certo, croci ovunque, ma anche ingredienti arabeggianti, quasi gitani.

Mi sembra che da quassù si vada lontanissimo, sia nel tempo che nella Storia di questa Europa in cui si va e si viene di fronte a questo Mediterraneo che ci unisce e ci divide in modo inesorabile.

Vasi blu di fiori, sedie e tavolini della stessa tonalità. Alcune case riportano sugli ingressi i nomi dei proprietari: la casita de Nerea y Roman; Elsa, Yanira, Angel, Moises Jr.  Alcune – poche – parlano di luoghi lontani (Bornholm). Mi chiedo allora se anche qui non sia arrivata una contaminazione che cancellerà forse la natura vera di questo luogo. Ma poi: qual è la natura vera di un posto dove tutto passa come il Barrio de Santa Cruz, se non il continuo divenire?

Metti in circolo il tuo amore

In un mondo di compagnie aeree low-cost, la Libreria Terraferma (Carrer Calderón de la Barca, 21) è una libreria low-cost. L’ambiente è modesto e semplice, ma efficace: qui, infatti, si comprano e vendono libri usati. Non è una novità, certo, in molte città del mondo ci sono soluzioni simili. Ma alla Terraferma, dedico qualche minuto a parlare con il ragazzo dietro al bancone: mi dice che loro vedono questo negozio come un metodo pragmatico per salvare il pianeta, per non creare necessariamente nuovi oggetti (in questo caso, libri). Per mettere in circolo un po’ di amore, quindi. Non penso infatti che i guadagni siano stellari, ma imprese come queste non pongono il profitto in testa alle loro giornate.

Avventure come quelle simili alla “Terraferma” sono lì per mettere in circolo un po’ d’amore, per permettere (forse) a tutti di leggere, per salvare qualche albero. E di alberi incredibili ne incontro un paio pochi minuti dopo, in Ramblas de Méndez Núñez, 7: qui infatti ci sono due esemplari di Ficus Macrophylla, dei sempre verdi – di origine australiana – che possono raggiungere l’altezza anche di 50 metri. Le loro radici sono delle colonne aeree che vanno a supportare i rami quando arrivano al suolo. Sono vere e proprie sculture viventi, che si integrano in modo eccezionale con gli immensi e orrendi palazzoni che sfigurano gran parte del centro di Alicante.

Elche, il più grande palmeto d’Europa

I Ficus Macrophylla non sono gli unici alberi incredibili che incontro nel mio primo, vero, viaggio in Spagna. Ad Elche, infatti, c’è il più grande palmeto d’Europa. Ci arrivo in treno, un treno piccolino e in orario, in quaranta minuti (biglietto andata/ritorno 5.90€ – maggio 2023) dalla stazione di Alicante: l’ingresso e l’uscita per il mezzo pubblico sono possibili solo tramite la validazione del biglietto. E allora, lì, di nuovo, sorge inesorabile il paragone spietato con l’Italia, dove il sistema dei trasporti non è sempre necessariamente così ben organizzato.

Il Palmeral de Elche è stato dichiarato Patrimonio dell’Unesco nel 2000 e accoglie centinaia di migliaia di palme coltivate fin dall’epoca cartaginese e irrigate da una serie di canali salmastri. Sono piante secolari, le palme, e solo gli esemplari femmine (chiamate hembras) producono i datteri, dolci e succulenti.

La prima area in cui incontro questi giganti forti è al Parque Comunal, a pochi passi dalla stazione dei treni: ho proprio l’impressione già da qui che i residenti vivano con gioia una specie di simbiosi con questa immensa coltivazione, che da lontano sembra una estesa foresta naturale. La sensazione di condivisione del territorio tra umani e alberi si rafforza al Huerto del Cura (in italiano, significa Parco del Prete): l’ingresso, che costa 6€, dà accesso anche ad una app che fornisce al viaggiatore un’audio-guida che mi accompagna attraverso le varie parti di questo giardino botanico privato.

Mi rendo immediatamente conto che io, di queste piante non conoscevo nulla prima di arrivare qui. Sono tante le specie, e tante le forme che possono prendere questi alberi, ma la più importante del Huerto è la Palma Imperial: il nome è stato dedicato dal Cappellano Castaño Sánchez – proprietario del giardino fino al 1918 – alla Principessa Sissi che arriva in questa parte di Spagna nel 1894. Questo esemplare è un maschio e ha appena compiuto 180 anni, un’età che rappresenta solo la piena maturità di queste piante.

Mi siedo all’ombra davanti alla Palma Imperial mentre un gruppo di visitatori francesi si fa selfie assurdi sotto alle sue fronde: a guardarla, sembra davvero sconfiggere le leggi della biologia con la sua quasi perfetta simmetria. Di solito, i germogli delle palme si sviluppano alla base dell’albero intorno ai primi 10-15 anni di vita dell’albero, mentre qui sono cresciuti a più di due metri di altezza dal suolo solo quando la palma aveva compiuto 30 anni, creando un’immagine simile ad un immenso candelabro di 8 tonnellate. Ad un esemplare così anomalo non potevano non dedicare una mostra situata alla fine del Huerto in cui – tramite fotografie scattate in varie epoche – ne viene tracciato lo sviluppo a dir poco incredibile.

Lasciato il giardino botanico, passo qualche ora nel centro storico di Elche: passeggio godendomi finalmente il sole, mentre l’Emilia Romagna a poche ore di volo da qui muore sotto piogge torrenziali mai viste prima. Le vie del centro storico hanno un passato misto, ricco, mussulmano e poi cattolicissimo. Nella Basilica di Santa Maria, dal tetto blu cobalto, assisto nel giro di poche ore a un funerale (di un alto dirigente della polizia locale) e a un matrimonio (Alba e Niall, Spagna e Irlanda davanti all’altare). Visito anche il Museo dedicato al Mistero di Elche: tra il 14 e il 15 agosto di ogni anno, qui viene messa in scena una rappresentazione musicale in lingua valenziana (e quindi non in latino) dedicata alla dormizione e all’assunzione della Madonna. Risalente al XII secolo, la storia narrata nelle celebrazioni del Mistero è basata sui Vangeli Apocrifi, molto popolari nel Medio Evo, ed è anch’essa considerata dall’Unesco come Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità.

L’Isola di Tabarca: cerchiamo tutti un altro Dove

Il traghetto parte alle 10.45 (biglietti prenotabili solo online – costo andata e ritorno 22€ – maggio 2023), ma alle 8 io sono già al porto: si è verificato nuovamente quel fenomeno per cui più lontana sono da casa e meno dormo, perché non c’è tempo per dormire in viaggio, perché la vita corre veloce in viaggio.

Faccio due passi sulla spiaggia di El Postiguet, lunga e povera di gente a quest’ora: gli unici altri umani che incontro o stanno semplicemente camminando da soli, oppure fanno yoga – ne riconosco la asana – oppure, in un caso solo, ballano. Nessuno sembra essere spagnolo e tutti sembrano lì a cercare una libertà mai esplorata forse prima, a voler abbassare con tenacia la consapevolezza del sé, altrove.

Il traghetto parte in orario. La costa che mi accompagna per buona parte della traversata (durata: 1 ora) è devastata da palazzoni distopici che vanno a disturbare la quiete delle acque blu del mare.

L’Isola di Tabarca è antichissima: è stata rifugio di pirati berberi, ma anche di famiglie di pescatori genovesi prigionieri a Tabarka, che fuggendo dalla città tunisina da cui prende il nome, qui sono naufragati nel XVII secolo durante il regno di Carlo III. Tabarca è una riserva naturale marina e per gli uccelli, la prima della Spagna nel 1986.

Ma Tabarca, a me sembra una visione: appena scesa dal traghetto, faccio una camminata verso il faro e la torre genovese che avevo visto dal mare e – un passo dietro l’altro – mi lascio indietro il rumore dei pochi viaggiatori che avevo incontrato poco prima.

Lunga circa 3 chilometri e larga 400 metri, in questa parte più selvaggia (El Campo) incontro calette rocciose e arbusti e piccoli isolotti che ne compongono l’arcipelago: la Cantera, la Galera, Nao e altri di cui non scrivo il nome perché un nome non ce l’hanno.

Nel centro dell’isola, invece, vivono circa 60 residenti: loro forse non se ne rendono conto, perché tendiamo tutti a dare per scontata la bellezza quotidiana, ma vivono in una cartolina. Case bianchissime, un po’ rovinate dal vento, ruvide, con porte blu e gialle, e gatti che dormono stropicciati qua e là, e litigano coi gabbiani. Un gruppetto di amici grassottelli chiacchierano davanti a una porta: sembra che stiano decidendo di che colore farla. Se me l’avessero chiesto avrei suggerito loro di dipingerla di rosso, perché è un colore che manca su Tabarca.

Intorno all’ora di pranzo, mi siedo in un piccolo bar: mangio olive polpette fredde al pomodoro, e bevo caffè mentre scrivo queste ultime righe su un vecchio tavolino da bar in plastica, come quelli delle spiagge di una vita precedente. Un vecchio signore stende dei panni sul terrazzo di una delle casette di fronte al bar. Una coppia di svizzeri francesi cominciano a parlarmi – usiamo 3-4 lingue insieme, ma ci capiamo. Mi dicono che vogliono venire a vivere in Spagna per il clima, per la qualità della vita. Andiamo via per anni, alcuni per sempre. Cerchiamo tutti un altro Dove, cerchiamo tutti una vita Altra.

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