Australia parte 3 ● Queensland
Per arrivare a Brisbane, ci ho messo un tempo che ora non so più definire. Di quelle strade australiane, però, non riesco a dimenticare i cartelli che indicavano con estrema disinvoltura che la prossima uscita si trovava a soli 3500, 1200, 4000 km. Ero spiazzata. Mentre la nostra piccola Europa diventava ogni istante più impercettibile, io mi sentivo imprendibile. Non mi troveranno mai, in mezzo a queste immensità. Spalancare le braccia. Lasciarsi andare.
Di Brisbane, la prima immagine che porto in superficie è il viso di Madame F che mi accoglie sulle scale della stazione dei bus. Nomade, unica nel suo genere, Madame è stata il migliore datore di lavoro. Mi ha dato fiducia, e coraggio, e ascoltava. Tanto. Ad un certo punto, nella vita di entrambe c’è stato un salto. Il suo è stato verso l’Australia: lei ed i suoi cari hanno lasciato la mia amata Hibernia per climi più miti dall’altra parte del mondo. E pochi mesi dalla loro partenza dall’Europa, abbiamo creato quella che penso sia ancora una splendida amicizia.
Di Brisbane, poi, ricordo i condizionatori ovunque. 22°C dentro. 32°C fuori. Umidità del 500%. Il tempo ribalta le cose nella nostra testa: a me, sempre più spesso, sembra che la vita scivoli tra le mani. I ricordi dei luoghi e delle persone si dissolvono come in un’eclissi. Non ho altri ricordi della città, se non le mie fotografie. Panta rei. Tutto svanisce.
In quella parte d’Australia, ho visto per la prima volta le foreste pluviali nei due parchi di Lamington e di Springbrook. Ho camminato sotto a felci alte due tre cinque metri e ho fatto la conoscenza dei fichi strangolatori. La foresta cambiava intorno a me rivelando i vari strati di vegetazione di cui è composta. Le rocce, alcune, garantivano spesso buio e fresco. Rileggendo le email scritte a chi amavo in Europa, ritrovo un passaggio che dice: “La natura qui in Australia è di una bellezza così complessa da risultare logica. Se solo il tempo si potesse congelare. Se solo potessi restare a guardare una felce che al mattino si apre nella foresta di Springbrook, forse coglierei ancora di più la grandezza del vivere”.
Sono stata anche in un ospedale speciale, grazie ai contatti di Madame F. Reparto di ortopedia, chirurgia, radiologia. Letti. Un po’ più piccoli del solito, ma pur sempre letti. Flebo. Gessi. I pazienti? I pazienti sono gli animali che da sempre abitano l’immaginario collettivo relativo all’Australia. C’erano circa 130 koala in cura: alcuni caduti dagli eucalipti, con zampe o nasi rotti. I koala erano divisi in comunità: quelli che potevano ancora avere cuccioli, i latin lover, gli anziani, i giovani. C’erano poi i canguri con o senza piccoli “joey”. Sono animali enormi, con dei piedi così lunghi che sembrano indossare le classiche calzature da pagliaccio. Di lungo, hanno anche le unghie. Loro, a differenza dei koala, non cadono dagli alberi: sono spesso investiti dalle macchine che percorrono queste strade incalcolabili. E allora all’ospedale veterinario, via coi punti, le bende, le operazioni. Vedere le orecchie di un piccolo “joey” che spuntavano dalla sacca della mamma e sentirsi allo stesso tempo deficiente e felice. In questa struttura, ci sono anche gli emu, che detto tra noi, sono animali orrendi e a me ricordano dei tacchini calvi in sovrappeso. A far loro compagnia, ci sono i wallabies (la versione ridotta dei canguri) e i leggendari cassowary: più che un volatile, un puzzle.
Le memorie vanno e vengono. Madame F, la sua bimba ed io abbiamo passato le ultime giornate insieme lungo la Golden Coast: ville così sfarzose e giardini così curati da sembrate finte. Poi, quella spiaggia bianca a perdita d’occhio. Con un’unica bandiera gialla e rossa piantata a pochi metri dall’acqua.
Poi più niente. Solo noi tre e le nostre orme. Le nostre vite.