Pechino
Al confine tra mondi
La Mongolia finisce, anche se spesso penso che un giorno ci tornero’. Insieme ai miei improvvisati compagni di viaggio europei, trascorro circa 8 ore alla frontiera con la Cina dove i vagoni vengono alzati e le ruote vengono adattate ai binari dagli occhi a mandorla. Una volta completate le stesse formalita’ di dogana gia’ espletate tra la Russia e la Mongolia, possiamo scendere. La realta’ “a terra” sembra quella di un film dei fratelli Cohen: l’Inno alla Gioia di Beethoven ci arriva da una serie apparentemente infinita di altoparlanti invisibili. Me li immagino nascosti nelle tasche delle molteplici guardie che controllano il confine. Un vento piatto sballa le punte degli alberi davanti all’ufficio dove funzionari un po’ imbustati hanno poco prima aggiunto un nuovo timbro sul mio passaporto.
C’e’ un supermercato fornitissimo che invece trasmette musica suadente, bling bling bling gnaaaaaa gnaaaaaaaaaa bling bling. Sara’ il ritmo, sara’ il fuso orario, li’ mi ritrovo a comprare dolci e bibite dai colori psichedelici. Quando risalgo sul treno niente Fratelli Cohen: sara’ la dose abnorme di zuccheri ingeriti in un tempo limitatissimo, ma mi sembra d’essere in un video dei Pink Floyd soprattutto perche’ la scritta della stazione comincia a rimbombare rosso fuoco sui miei occhiali. Sono tra mondi immensi. In bilico tra Dostojevski, Ghengis Khan e Mao, tra la Piazza Rossa lassu’ all’inizio della mia Transmongolica e questa Tiananmen. Tra i calci di Ulan Batoor, i pesci del Lago Baikal e questa Citta’ Proibita che mi aspetta. Mi sento quasi innamorata su questo confine: mi batte il cuore come soltanto un viaggio puo’ farti sentire viva perche’ se viaggi impari, e accogli.
La Cina e’ qui. E’ ora.
Pechino: l’Impero & Jimmy Choo
Il mio primo ricordo di Pechino e’ la pioggia. Scorre sui vetri del treno dal quale tra qualche ora scendero’ per sempre. La seguo con le dita, ed al di la’ c’e’ il verde di boschi monsonici, e l’Impero mi aspetta insieme alla fine di questo viaggio ampio, e 16 milioni di persone, e il Tempio del Cielo, ed il Palazzo d’Estate. Se ho lo zaino in spalla, sorrido. Se ho la Nikon in mano, il sangue si’ che lo sento scorrere nelle vene. Penso che il tempo che ci viene dato nella vita sia ingiusto e breve, e allora bisogna vedere, fermare, apprezzare le meraviglie dell’Attimo. La capitale di Kublai Kaan mi aspetta fuori dall’ipermoderna stazione. La mia ultima stazione. Non c’è tempo. Devo correre.
E allora via, svelta, sotto un cielo blu cobalto, verso l’hotel dove concludero’ la mia Transmongolica. Good morning. Do you speak English? Chiedo, e timidamente non aggiungo: “Vi prego, ditemi che parlate in inglese perche’ se aspettate che io parli cinese dovremmo restare qui in questa hall nell’eternita’ dei secoli”. La risposta della signorina ordinata e ben vestita dietro la reception e’ stata una serie di suoni dolci e arzigogolati piu’ o meno cosi’ anshas peloshs kdoelsh dkog oijklmh. Ok, non parlate in inglese, ne’ francese, ne’ tedesco, ne’ io ahime’ posso discutere in nessuna lingua che sia vagamente asiatica. Ed allora squilli di trombe! Benvenuti a tutti nel meraviglioso mondo della Lingua Che Non C’e’! Sorrisoni. Disegnini. Gesti che vengono inequivocabilmente fraintesi. Espressioni ilari quando cerco di mimare la Citta’ Proibita. Ce la facciamo, alla fine. Mi danno le chiavi della stanza. Ed una cartina che appena uscita dall’hotel getto perché, come sanno benissimo i miei amici, io con le cartine non sono brava.
Descrivere la capitale di un impero è complesso e pericoloso. Potrei raccontarvi della Città Proibita. Di Piazza Tiananmen. Di Mao. Degli Imperatori. Quelle cose, però, voi le sapete già. Vi racconto la mia Pechino. Alla fine di questa mia Transmogolica, mi aspetta un’atmosfera morbida tra gli hutong. Ora, io non capisco niente di pianeti e robe così, ma prima di partire ho colmato l’ignoranza con la lettura di alcuni libretti che mi hanno raccontato perchè l’atmosfera in Cina, verso settembre, è soffice e cedevole. Il quindicesimo giorno dell’ottavo mese lunare, la luna diventa rotonda.
La Luna rotonda in Cina simboleggia la riunione della famiglia. Io non lo so se ero io ad immaginarmi le cose, ma in quell’atmosfera liscia e molle mi è sembrato di vedere splendere sorrisi di figli, genitori, zii lontani, che ritornano, e vengono a riflettersi sulle rive del lago Houhai. Quando vogliamo bene a qualcuno, diventiamo come degli aquiloni. Un filo invincibile ci appiccica e ci unisce per il cuore. Credo che ogni tanto poi, magari quando si è molto felici o quando la vita ti regala una tagliola, chi sta dall’altra parte del filo, lo tiri un po’. “Hey, ho bisogno di vederti”, sembra dire. “Vieni?”. E’ ora di andare a casa, allora. In mezzo alla folla della Città Proibita, mi è sembrato di vederli, Houyi e Chang’e, che si rincorrono invisibili, tra alcuni danzatori e alcuni anziani che si rilassano al parco. La storia racconta di una pillola dell’immortalità, di nove soli, di una lepre che vive sul satellite argentato della Terra e di altri giri complicati che non riesco a ricordare.
La fine, però, è la parte migliore di uno dei racconti che stanno alla base di questi giorni di festa: Chang’e scivola via da una finestra, e comincia a volare nel Cielo finchè non arriva alla Luna mentre l’amato costruisce un palazzo sul Sole. Le due metà della stessa cosa, l’energia femminile e quella maschile, Yin e Yang, possono incontrarsi soltanto una volta all’anno nella notte della Lanterne. Tornando dal Palazzo d’Estate, ho sperato che ci stessero guardando, qui sotto, in questa smisurata metropoli che accompagna la vita di quasi 16 milioni di persone. Ho sperato che i loro invincibili fili d’aria abbiano ricongiunto chi vive lontano. Chi abita sullo stesso pianerottolo ma non si saluta. Chi viene rapito finalmente dal sorriso di quel ragazzo in metropolitana.
La mia Transmongolica finisce sulla Grande Muraglia a Badaling. Ci si arriva in poco più d’un’ora e mezza da Pechino. Ho poco tempo ma molta voglia di vedere questo incanto dell’architettura. Dovrebbe essere un finale epico, questo, mi dico. Io altissima qui, su una delle sette meraviglie del mondo, che penso a questi novemila chilometri che finiscono domani, che non posso fermare se non nella mia Nikon, se non nei miei racconti sconclusionati. Dovrei essere qui a pensare che presto sarà il momento di un altro viaggio epico, che lassù nel Cielo ci sono Yin e Yang, che sono stata in posti immensi, che ho visto delle albe inverosimili. Invece, la mia Transmongolica termina con il suono di tacchi inadeguati dell’unica italiana che abbia incontrato durante tutto il viaggio, che pretende di venire ad arrampicarsi sul muro dell’Impero con le sue nuove Jimmy Choo. Miss Maglietta Bagnata Cocoricò mi segue come la peste, non mi molla, e anzi mi chiede come facevo a sapere che sulla Muraglia ci volevano per lo meno delle scarpe da ginnastica. Le rispondo che me l’ero sognata. Lei, in modo aberrante, mi crede. Dicono che in ogni circostanza della nostra vita ci sia un filo che unisce il Tutto. Dov’è il mio filo, in questa situazione? Ah già – ci sono: Jimmy Choo, pur essendo nato in Malesia, era di origini cinesi no? No! No! Non possono aver percorso mezzo mondo per arrivare alla fine del Mondo e trovarci una che mi chiede se … conosco delle discoteche a Pechino! Fatela sparire!
Questa sì che è una degna conclusione. Dallo stivale italico a Pechino con furore!
Ho apprezzato moltissimo. Grazie per il link.
Peccato solo che non ho potuto farti da guida nella mia patria adottiva. Ma…niente è perduto! A Shanghai ancora non sei stata.
Buon anno del drago (che inizierà il 23 gennaio).
Sara
complimenti cara skandorina le tue parole mi hanno fattonviaggire con la testa e mi e sembrato di essere il con vio care AMICHE