Cartoline dall’Ecuador continentale
Il pianeta ha la forma di un mandarino
Latitudine 00’’ 00’’ 00’’. La linea “più giusta” a livello scientifico, calcolata migliaia di anni fa dalle popolazioni pre-Inca, sembra passare proprio da qui, al parco museo di Intiñan, a circa 15 chilometri da Quito.
La scienza non viene quindi solo dal mondo occidentale, ma la Storia tende comunque spesso ad attribuire grandi scoperte matematiche principalmente al popolo più forte, al più ricco, o al colonizzatore. A pochi minuti da Intiñan, infatti, c’è un gigantesco monumento, visitato da migliaia di persone ogni anno, che segna un altro passaggio dell’equatore, stabilito da un gruppo di scienziati francesi che nel XVIII secolo pensarono di averlo correttamente identificato proprio lì, a San Antonio de Pichincha. In fondo, però, non ci importa veramente dove passi esattamente l’equatore.
Conta però sapere che questa linea immaginaria divide il nostro pianeta in due parti uguali, rendendolo paragonabile a un mandarino un po’ schiacciato ai Poli. Che qui, a la mitad del mundo, le ombre scompaiono. Che in questo parco, tutto decorato da statue che rappresentano varie divinità solari, l’Effetto Coriolis funziona in modo diverso: questa forza, causata apparentemente dalla rotazione terreste e che agisce tra le altre cose sui venti e sulla formazione delle tempeste e degli uragani, qui infatti è pari a zero. Che qui, né a nord né a sud di nessun luogo, per una volta forse, ci si può sentire in equilibrio.
Siamo farfalle
Da la mitad del mundo, un’ora e mezza di jeep in mezzo alla foresta subtropicale mi porta al Mariposario de Mindo. Prima di passare a pensieri filosofici, però, dovreste sapere che io ho avuto per tantissimo tempo una paura estrema delle farfalle. Non mi sono mai soffermata realmente a analizzare (o a far analizzare) questa fobia: semplicemente per decenni ho continuato a fare scene teatrali ogni volta che uno di questi graziosi insetti mi si avvicinava. Ridicola. Poi, senza un chiaro motivo o riconducibile a una qualche logica, il timore verso le farfalle è scomparso. Ora ho solo qualche difficoltà con le falene, ma questa è un’altra storia.
Comunque sia, il Mariposario de Mindo è un magnifico santuario dedicato alle farfalle e mentre mi muovo tra una sezione e l’altra di questo tempio della natura, ragiono che la vita è effimera e breve, ma anche dolce e illuminata dalla bellezza: migliaia di farfalle escono piano e delicatamente da crisalidi anche dorate, mentre altre se ne stanno già al sole ad asciugarsi le ali o rimangono appese in gruppi sotto cascate d’acqua cristallina. Alcune ti si posano addosso, senza paura, con le loro ali blu e rosse e di mille colori. Altre volano di pianta in pianta, e ogni tanto si fermano incuriosite a chiacchierare con altri esemplari. Si nasce, si ama, si muore. Siamo delle farfalle, e nemmeno ce ne accorgiamo.
Dovrei ricordarmi altro, ma ricordo solo i colibrì
Di Mindo e delle foreste che circondano questo tranquillo paesino a circa 1300 metri sul livello del mare probabilmente dovrei ricordarmi e quindi raccontare qui anche molto altro, oltre al santuario delle farfalle. Potrei raccontare ad esempio della teleferica scassata che abbiamo preso per attraversare una valle rigogliosa e piena di palme per arrivare dopo una camminata di circa quattro ore (andata e ritorno) prima alla Cascata Reina e poi alla Cascata Nambillo. E per farvi fare quattro risate, potrei raccontarvi – in caso non l’avessi ancora fatto – del terrore che provo ogni volta che salgo su questi trabiccoli.
Ma sinceramente l’unica cosa che ancora oggi, dopo quasi un anno e mezzo, mi rimane chiara in testa è la presenza dei colibrì. Il primo mattino a Mindo, infatti, ricordo di essere uscita sul tetto della piccola pensione e, quasi per magia, di essere stata circondata da questi uccelli: andavano e venivano, in taglie e tinte diverse, ad una velocità che non sembrava possibile da sostenere per le loro piccole ali. Piluccavano semi e frutti dalle tante piante rigogliose che abbracciavano il terrazzo dove facevo colazione.
I padroni della struttura, inoltre, avevano lasciato dei pezzi di papaya e banana su piattini colorati e anche qui era tutto un andirivieni di sfumature, un’esplosione di ali che vibravano mentre portavano via questi vizietti per andarsi a posare su rami su cui a loro volta sembrava svilupparsi una foresta intera in altezza. Alcuni erano meno spaventati dalla mia presenza e quindi si avvicinavano al mio tavolo, ma solo per qualche istante. Alcuni avevano zampette bianche pennute, altri facevano sfoggia di lunghissime code color cobalto. Ad un certo punto, poi, su un ramo un po’ isolato dagli altri, c’è stato un po’ di caos: a crearlo, un tucano giallo e rosso. Sembrava essere un po’ fuori luogo, in mezzo a tutti gli altri piccoli missili piumati e quindi dopo qualche minuto ha tolto il disturbo.
L’aria era immobile, ma la vita su quel tetto sembrava invincibile.
Il rosmarino lo sa
Cotopaxi. Chimborazo. Tungurahua. Sembra un’antica formula magica. In realtà, il Cotopaxi è parte della Cordigliera Centrale delle Ande e uno tra i vulcani attivi più alti del mondo. L’epica andina racconta che in principio fosse un guerriero poderoso, nell’epica andina. Innamorato della bella Tungurahua, si scontrò ferocemente con Chimborazo (6310 m. s.l.m.), il vulcano più alto e più imprendibile dell’Ecuador. Esplosioni e distruzione della città di Latacunga furono gli strumenti feroci utilizzati dai due focosi pretendenti per attirare l’attenzione dell’innamorata (che scelse, per onore di cronaca, Chimborazo).
Comunque sia andata, coi suoi 5897 metri sul livello del mare, il Cotopaxi sembra toccare il cielo, respinto o meno dalla sua amata e in un giorno senza nuvole, questo gigante si vede da Quito. Mentre cammino nel Parco Nazionale che prende il suo nome, ne guardo la forma triangolare quasi simmetrica e la sua punta innevata, raggiungibile dal Refugio José Rivas (4864m). L’ascesa da lì inizia intorno a mezzanotte, perché trovandosi all’equatore, i raggi del sole perpendicolari ne scioglierebbero i ghiacci durante il giorno. Si sale verso la luna ma, secondo quanto si racconta, solo la metà di chi decide di tentarne l’ascesa ce la fa: la montagna a queste altezze ti ridimensiona, il fiato è corto, le gambe pesanti. Nel 1802 Alexander Von Humboldt lo dichiara infatti inviolabile (ma viene smentito circa settant’anni più tardi da Wilhelm Reiss).
Anche qui i ghiacciai si stanno riducendo ad un ritmo esponenziale, e secondo le ricerche del centro educazionale di Limpiolungo (all’ingresso del Parco), spariranno completamente entro 20 anni. Il Parco Nazionale del Cotopaxi non è quindi un’eccezione al declino inflitto sul pianeta da parte degli esseri umani. Ci sentiamo dei ganzi, pensiamo di essere fortissimi e decidiamo che nulla è mai abbastanza. In realtà, dovremmo solo imparare dal rosmarino che cresce qui a 3300 metri: non ha profumo, quassù. Le sue foglie sono più piccole. In quota tutto diventa più minuscolo e tutto viene ottimizzato e ridimensionato. È abbastanza così. Dovremmo fare un bagno di umiltà e cercare di proteggere questa bellezza.
Vanessa ha fatto pace col suo nome e ha smesso di fuggire dalle farfalle!
Chissà che il merito di ciò non sia da attribuire a qualche esperienza di viaggio fatta in passato…
Che ridere questo commento! E non sai quanta gente mi ha scritto la stessa identica cosa dopo aver letto questo articolo 🙂 Todo cambia, no?
Mi pare che la tua amica dopo essere stata a mollo è andata a cercare un rubinetto per chiudere l’acqua centrale ha conosciuto anche le cantine della reggia
Assolutamente. E’ stata un’avventura completa 🙂