Romania

Craiova: ragionamenti sull’Europa

È buia dall’alto, questa parte di Romania. Come un sonno senza sogni, sereno. Seduta quassù, in fondo all’aereo, inizio così questo piccolo viaggio verso una meta inusuale in questa bellissima Europa dove ho la fortuna sfacciata di essere nata e cresciuta. Molti voli da Torino verso la Romania partono in tarda serata, quindi atterro a Craiova dopo mezzanotte. Chiamo un Uber (un Uber! Impensabile in Italia!) che si presenta senza patemi dopo circa 7 minuti e mi porta liscio liscio verso l’hotel dove dormirò nei prossimi 3 giorni. L’ingresso avviene tramite codici che mi sono stati comunicati qualche ora prima dai proprietari. Non li incontrerò mai, ma mi aspetteranno alzati per assicurarsi che io sia arrivata in camera senza problemi. Comunicheremo in inglese pressoché perfetto durante la mia permanenza. Ho la sensazione – per nulla romanzata, credetemi – che abbiano pensato a questo hotel come a una casa accogliente, più che a un luogo di passaggio. Sul comodino, nuovo, trovo un diffusore di essenze, nuovo. Il letto, nuovo, ha piumino e lenzuola di qualità, nuove. Buonanotte Craiova.

Chiamare marzo

In questi giorni, in moltissime nazioni europee si celebra l’arrivo di marzo. Nel paese dove sono cresciuta fino agli anni dell’università, si “chiama marzo” e ogni tanto questa convocazione coincide con abbondanti nevicate. In Romania, Albania, Bulgaria, Moldavia, Macedonia, e in Grecia, si celebra l’inizio della primavera con una festa identificata con nomi diversi a seconda della nazione.

In Romania, questa ricorrenza è Mărțișor: si tratta di una festa con origini antichissime, come sempre complesse o quasi impossibili da tracciare, ma qui in Romania sicuramente anteriori alla romanizzazione della nazione quando la civiltà dacia onorava la rinascita della natura. Al mattino, quando esco dalla mia casa hotel, mi rendo conto subito dell’occasione speciale: il centro pedonale è pieno di bancarelle dove si possono acquistare piccoli amuleti, di solito per fidanzate, mogli, sorelle, e figli. Questi piccoli oggetti, immagini di amore e di buon augurio, hanno sempre due colori: il rosso, che rappresenta appunto la primavera che se ne sta lì alle porte, e il bianco che simboleggia l’inverno appena terminato.

Mi lascio alle spalle Piazza Mihai Viteazul e camminando per circa un paio di chilometri lungo Calea Unirii, una via piena di studi medici, ospedali, un centro dialisi della Fresenius, e molte case in stile Brancovenesti, arrivo al Parco Nicolae Romanescu, dove la primavera è davvero in the air. Il parco, curato e pulito, è un vero e proprio documento storico: nel 1898, dopo l’elezione di Romanescu a sindaco della città, fu votato un progetto per la modernizzazione della città. Uno degli obiettivi del programma era quello di creare parchi e giardini. A vincere la competizione fu l’architetto francese Edouard Redont che portò i suoi piani all’Expo di Parigi nel 1900 e vinse la Medaglia d’Oro.

Redont era un tipo tosto: per il parco di Craiova, decise di introdurre centinaia di piante che normalmente non crescono in Romania; disegnò un castello medievale; costruì un Ponte Sospeso che collega due montagnole e che erroneamente mi fa venire in mente quello di Brooklyn.

Aggiunse colline e valli, strade e sentieri per un totale di circa 35 chilometri. Cammino per alcune ore in questo polmone verde della città, una sintesi perfetta tra un quadro e architettura del paesaggio. Mi fermo a pranzo in uno degli imbarcaderi che si affacciano su uno dei laghi artificiali del parco: un’insalata accompagna carnati oltenesti sottili e dal sapore molto delicato, un caffè. Non ci sono viaggiatori in questo primo pomeriggio di febbraio. Me ne sto lì a guardare famiglie e gruppi di amici che vanno e vengono, che condividono un piatto o una limonata, e come spesso accade non mi sembra di avercela, un’altra vita altrove.

Nel pomeriggio me ne vado ai Giardini Botanici Alexandru Buia. La maggior parte delle piante qui come al Parco Romanescu stanno ancora sonnecchiando, mentre alcune si stiracchiano timide ma decise fuori dalla terra. Mi chiedo come sarà bello tutto questo ad aprile, maggio quando la natura sarà in piena esplosione. Negli Anni Cinquanta, a volere la creazione di quest’area verde è stato Buia, un professore di botanica e agraria all’università di Craiova. 13 ettari, 3 laghi artificiali, i Giardini Botanici sono ricchi anche di statue e installazioni artistiche, ma per me una delle parti più belle è quella del Ponte degli Amanti: qui due file di fiori ornamentali in vaso scivolano verso il piccolo stagno che circonda l’area.

Non ci sono però due innamorati mentre passo da lì, ma due amici un po’ avanti con l’età, uno di essi chiaramente sordo perché parla ad un volume altissimo. Mi sembra commentino le oche e i cigni che gironzolano nell’acqua ai loro piedi. Non importa dove sono nel mondo: immagini come queste, di amici che ridono per delle scemenze, che scherzano a chi le spara più grosse sono alla fine quelle che mi restano più a lungo nella memoria.

Cosa definisce un Viaggio e un Viaggiatore?

A Craiova non incontro nessun altro viaggiatore: questa situazione, oltre a essermi altamente gradita, mi porta anche a ragionare su come si possa o si debba definire precisamente un Viaggio. È un viaggio l’andare tutti sempre nelle stesse destinazioni? E poi le stesse per chi? Oppure è meglio non perdere mai la curiosità e continuare a cercare anche mete considerate spesso secondarie, un po’ bistrattate, perché forse sono proprio quelle ad avere ancora mantenuto un minimo di autenticità, a offrire uno spiraglio di vita quotidiana non ancora totalmente annacquata dalla globalizzazione di cui siamo tutti figli? Ovviamente non ce l’ho una risposta a tutti questi dubbi. Io di risposte in generale nella vita non ne molte.

Mentre esco dalla mia casa hotel, in questo lunedì mattina incontro molti studenti sia dell’università, che più piccolini. I bambini sono gli stessi ovunque, qui in Oltenia così come a Cuneo: si tengono per mano a coppie mentre attraversano la strada seguendo la maestra, chiacchierano, ridono e fanno gli scemi.

La prima chiesa che visito è la Chiesa dei Santi Apostoli, una delle strutture religiose più antiche di tutta Craiova (costruita inizialmente nel XV secolo). Il pope e un suo aiutante non devono essere molto abituati ai viaggiatori, perché appena mi vedono mi invitano a entrare.

Il rumeno e l’italiano non sono la stessa lingua, ma capisco che mi stanno chiedendo da dove vengo. Io so dove vivo, ma non da dove vengo: ecco una volta nella vita vorrei rispondere così per vedere la reazione dei miei interlocutori. Così, giusto per creare un po’ di casino. Perché è la verità: in fondo cosa definisce l’origine di un essere umano? Il suo passaporto? La sua famiglia? La cultura o la nazione in cui si nasce? Oppure quella che si acquisisce attraverso diversi canali?

Perché a me davvero piacerebbe che fosse possibile dire: “Io sono europea”, sono figlia di questo continuo rimescolio di lingue, di nazioni che sai dove iniziano ma non dove finiscono, sono figlia della pace e delle mille guerre, sono figlia dell’Italia, ma anche dell’Irlanda e della Grecia, sono un prodotto dei mille venti che hanno delineato i Carpazi, il Caucaso, le Alpi e i Balcani, sono un prodotto del Danubio, del Po, della Vistola, dello Shannon. Ma al religioso che mi invita dentro alla chiesa rispondo che sono di Torino.

Nella Cattedrale Metropolitana di Craiova, nessuno mi chiede nulla. La temperatura all’interno di questa struttura offre riparo a una fila infinita di vecchiette talmente stereotipiche coi loro foulard in testa da sembrare finte. Ci sono anche due senza-tetto, gli unici che incontro più volte nel centro di Craiova in questa breve permanenza. Le chiese non sono solo affollate, ma anche in movimento in questa parte d’Europa: i fedeli vanno e vengono da un’icona all’altra. Questi spostamenti mi stupiscono sempre, perché nei templi di altre fedi cristiane mi sono spesso sentita obbligata alla stanzialità per non disturbare le divinità.

Un’altra cosa che noto in questa chiesa dai muri color dell’oro è che più religiosi ufficiano la funzione: stanno in piedi alla destra della sempre presente iconostasi, si danno il cambio nella lettura e nel canto di un paio di libri sacri appoggiati su un leggio che ruota. Ecco come mai il leggio ruota. Ho visitato decine di altre chiese ortodosse nella mia vita, ma per la prima volta rilevo questa cosa: i viaggi ci regalano nuovi occhi, ci fanno diventare più consapevoli e più presenti.

Uscita dalla Cattedrale, trovo strana solo una cosa: non ci sono parcheggi per i fedeli. Ne provo a parlare con alcune persone che incontro sulle panchine – nuove – che circondano la chiesa. Anche questa volta la vicinanza da rumeno e italiano mi aiuta: capisco (forse) che i parcheggi ci sono, ma (forse) sono a pagamento e quindi pochi se li possono permettere. Che la diocesi (forse) riceve una parte di queste tariffe. Non so a cosa mi possa servire un dettaglio così in futuro, se non ad argomentare ancora una volta che le chiese sono tutte delle grandi macchine mangia-soldi, non importa di quale orientamento siano. Forse.

La prossima tappa, vicinissima, è la Chiesa della Madonna Dudu. Mi siedo per terra perché nelle chiese ortodosse non ci sono quasi mai sedie e assisto ad una serie abbastanza lunga di confessioni in mezzo al solito andirivieni di fedeli da un’immagine sacra all’altra. Sono tutte donne, di tutte le età, quelle che approcciano il pope con peccati che, almeno a giudicarle dall’aspetto, non possono essere mortali: che razza di errori imperdonabili possono aver fatto, queste donne? Sembrano tutte delle brave persone e mi chiedo allora che cosa le mangi dentro, mi domando quale corruzione e angoscia possano rodere le loro anime.

La confessione avviene in modo molto fisico, qui: la credente viene benedetta dal religioso, si inginocchia ai suoi piedi e lui le copre la testa, la nuca, con la sciarpa simbolo del suo ruolo spirituale, decorata in argento su sfondi neri. Si tratta di un simbolo? Dio ti protegge, oppure lascia che ti protegga io dall’ira di Dio? Un’altra idea mi balena in mente: più si va a est, più mi sembra che la fede diventi fisica, che ci sia più contatto. Basti pensare ai baci che i fedeli ortodossi danno alle icone. Non so se questo comportamento mi disturbi o mi dia fastidio: il toccarsi è diventato un tabù, è diventato un qualcosa di complesso e compromesso negli anni pandemici. Chissà quale dolore il Covid ha portato qui con la lontananza corporea dalla fede.

La Chiesa di San Nicolai è chiusa al pubblico quando ci arrivo nel primo pomeriggio: vengo informata da una ragazza appena entro nel cortile della struttura. Noto allora che l’occhio sinistro della giovane è imbrigliato in un enorme paio di ciglia finte, mentre il destro è senza trucco. Parla poco inglese, ma mi dice che posso dare un’occhiata agli affreschi che decorano l’ingresso della chiesa: quelli sulla parete destra sono una rappresentazione delle Trombe dell’Apocalisse, lungo le quali diavoli blu fanno cose indicibili a re, regine, ghiottoni, e peccatori in generale. Sempre tanto allegri, i cristiani.

L’ultima fermata spirituale è alla Chiesa di San Iliei e qui il pope se ne sta in piedi ad accogliere le fedeli che vanno e vengono e regge in mano una candela talmente grande da sembrare assurda. Alla sua destra, c’è un tavolino su cui una donna stira. Sì, stira. E parla al cellulare, e ogni tanto saluta chi entra ed esce. Forse è questo l’aspetto che più mi piace delle chiese ortodosse: sono vissute, perché la vita è anche ahimè stirare dei panni.

Nessuno mi può fermare

Come scrivevo pochi paragrafi fa, a Craiova passo la stragrande maggioranza del tempo da sola, senza che nessuno mi fermi o mi chieda qualcosa. Questo avviene anche all’Università, dove entro e visito un paio di aule e androni completamente deserti e chirurgicamente puliti, e anche al Teatro Marin Sorescu: situato in Piazza William Shakespeare e costruito secondo i dettami del Brutalismo, è stato fondato solo 165 anni fa e dal 1989, un anno basilare nella Storia dell’Europa, partecipa a diversi festival internazionali. Dal 1994, poi, organizza una rassegna molto importante dedicata al Bardo. Non posso non domandarmi a questo punto che cosa possano aver messo in scena durante gli anni del regime comunista: una serie pressoché infinita di rappresentazioni intrise della retorica vuota tipica di tutte le dittature del mondo.

Sono sola anche quando arrivo alla Cofetăria Minerva. Surreale è il solo aggettivo che penso di riuscire a trovare una volta sedutami per un caffè e un dolce. Assomiglia a una sala da ballo, tavoli in marmo, sedie, divani, e pareti nei toni del damasco rosso e verde. Soffitti ricchi, quasi troppo. La signora dietro al balcone ascolta una radio che trasmette solo ed esclusivamente canzoni italiane: alcuni artisti del recente Festival di Sanremo sono seguiti da Ligabue e poi da Battiato e Alice che cantano dei treni di Tozeur.

Mostri

La mattina del mio ultimo giorno a Craiova vado al Museo dell’Oltenia – chiuso il lunedì – che si trova in un palazzo spettacolare di fronte alla Chiesa della Madonna Dudu. Ci sono alcune classi di ragazzini delle medie che visitano il palazzo insieme a me, e penso che potrebbe davvero essere un centro culturale eccezionale se solo almeno una parte delle spiegazioni – presentate su enormi dettagliati pannelli – fosse in inglese. Provo a fare la traduzione online delle prime sale, ma mi stanco facilmente perché è un meccanismo abbastanza assurdo.

Decido però di impegnarmi se non altro a quelle dedicate alla Storia più vicina me, ovvero dalla Seconda Guerra Mondiale in poi. In una di queste sale, si parla della repressione spietata che il governo comunista impone contro quei cittadini che ovviamente, una volta ancora nella Storia, sono considerati nemici del sistema. Vengono creati campi d’internamento in linea con quelli del sistema penitenziario sovietico: i diritti dei prigionieri sono disumanamente limitati, il vitto ridotto, le pene diventano sempre più dure, fino ad arrivare all’Esperimento di Piteşti. Quanto avviene in questo carcere a poche ore da Craiova, tra il dicembre 1949 e il dicembre 1951, rappresenta uno degli esperimenti di rieducazione di massa più osceni di sempre: oltre a una serie assurda di punizioni psicologiche, gli internati – la maggior parte dei quali erano studenti – sono stati sottoposti da altri internati a torture fisiche.

Mi spiego meglio: in questo articolo pubblicato nel 2019, si racconta come i prigionieri dovessero passare attraverso 4 fasi di rieducazione o smascheramenti. Nella prima, definita smascheramento esterno, i detenuti dovevano dimostrare la loro lealtà al Partito rivelando i diversi legami con i “nemici”, legami che avevano nascosto durante le indagini della Securitate prima di essere condannati al carcere. Nella fase successiva, o smascheramento interno, i carcerati dovevano rivelare i nomi dei “nemici”, cioè di coloro che erano meno brutali nei loro confronti all’interno del penitenziario. Più fittizi i nemici, maggiore era la possibilità per i prigionieri di passare alla fase successiva, denominata “smascheramento pubblico morale“. Durante questa terza fase, le vittime dovevano rinnegare la propria famiglia o gli amici più stretti e le proprie convinzioni religiose. Infine, nella quarta fase, i detenuti sono stati costretti a rieducare i loro migliori amici, perdendo così il loro status di vittime. Ovviamente, un fallimento in qualsiasi fase successiva rimandava i detenuti al punto di partenza.

In questo sistema osceno, inoltre, la morte non era un’opzione: molti studenti non tentavano di provocare pestaggi estremi, ma li desideravano ardentemente per disperazione. Era l’unica possibilità di dare una possibilità alla morte. Purtroppo, chi faceva gli esperimenti lo sapeva benissimo: lo sapevano anche gli aguzzini delle celle, perché molti di loro di loro avevano desiderato lo stesso quando si erano trovati nella stessa situazione. Il comando era categorico a Piteşti. Non erano ammessi colpi alle tempie, direttamente al cuore, sulla nuca o su qualsiasi altra parte del corpo che potesse portare alla morte. Non era necessaria la morte fisica degli studenti.

Le spiegazioni delle sale continuano con le descrizioni di quanto avvenne più avanti, negli Anni Ottanta: la seconda crisi petrolifera (1979), il deficit economico della Romania, il lungo periodo di austerità imposto da Nicolae Ceaușescu (ne ho scritto qui) che risulta in uno stop dell’uso del gas naturale per il riscaldamento domestico nel 1982 e un programma di “sicurezza alimentare” che va a regolare la quantità del cibo consumato dalla popolazione rumena. Dirò un’ovvietà, ne sono certa, ma siamo mostri e davvero la Storia gira in cerchi.

[Se siete interessati agli altri articoli che ho scritto sulla Romania, cliccate qui]

 4 polaroid da Iaşi 

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