Ecuador

Cuenca e il Parco Nazionale El Cajas

Di Cuenca ricordo tante cose.

Ad esempio, la prima notte nel capoluogo della provincia di Azuay io e la mia compagna di viaggio abbiamo combinato un gran casino. L’hotel in cui dormiamo dall’esterno non sembra niente di che: una pensione, forse, la chiameremmo in italiano. All’interno le cose stanno davvero in un altro modo. La nostra stanza – chirurgicamente pulita – è in realtà un intero appartamento al primo piano, alla fine di una scalinata che nemmeno a Piazza di Spagna, pavimenti in parquet su cui spalanchiamo senza ritegno i nostri zaini sporchi di polvere, un letto davvero troppo grande anche per due adulte molto alte, e oggetti curati ma stranamente fuori luogo sparsi ovunque: una macchina da scrivere fintamente nuova, abat-jour in vetro che ricordavano quelli che si trovano nei bazar di Istanbul, cornici portafoto in cristallo ancora dentro al cellophane, due armadi giganteschi in cui io entro in piedi senza troppi problemi. Ma soprattutto il bagno, ambientazione del dramma: marmo, tanto marmo, bianco, nero, argento; i pomelli della doccia in finto oro. Se amo profondamente il Sud America è anche per questo: per l’esagerazione di alcuni luoghi, per la sproporzione tra il dentro e il fuori. In Sud America la vita è rigogliosa e se ne frega se non c’è uno stile unico. La vita non è un set cinematografico in cui ogni cosa è predisposta fino all’ultimo dettaglio.

Comunque sia, dicevo: il gran guaio. A mezzanotte, la mia amica entra in doccia. Apre il rubinetto. Il rubinetto le resta gloriosamente in mano. L’acqua, come il rio delle Amazzoni, comincia a uscire non solo dal tubo della doccia, ma anche dal muro dove pochi istanti prima se ne stava tranquillo il rubinetto. In pochi minuti, ci troviamo nella pubblicità del Saratoga. In mutante e maglietta, scendo in reception: vuota. Comincio a suonare la campanella come se stessero arrivando le truppe dei Conquistadores. Niente. Nell’hotel ci siamo solo noi due e gli altri 4 nostri compagni di viaggio, che però dormono su un altro piano, e che quindi non arrivano in soccorso. Quindi, in modo surreale, mentre mi muovo alla ricerca del personale, sento come un’eco l’acqua che continua a scorrere al piano di sopra. Dal buio, illuminata dalla torcia di un cellulare, spunta una testolina: il ragazzo che ci aveva accolto solo un’oretta prima, mi guarda come se avessi tre teste. “Abbiamo rotto la doccia. Acqua ovunque”, balbetto nel mio spagnolo inventato. Mi segue, mediamente svelto, forse più per l’espressione della mia faccia che per la correttezza della mia grammatica. Per terra un’infiorata di asciugamani tenta invano di fermate le cascate che vengono dal bagno. Il ragazzo entra in doccia vestito e prova a bloccare l’acqua con le mani: la spinge dentro il buco del muro, ma lei esce più forte dall’alto. Dopo qualche minuto di battaglia inutile, però, l’acqua si ferma. Il silenzio ci circonda. Con l’orgoglio ferito ma stoico di un eroe epico a cui hanno fregato l’amata, il ragazzo annuncia: “La riserva d’acqua disponibile per tutto l’hotel è esaurita fino a domani. Nei prossimi giorni aggiusteremo la doccia. Prendete le vostre cose. Seguitemi”. E così facciamo: io in mutande e t-shirt, la mia amica con i capelli bagnati e mezzi insaponati, chiudiamo gli zaini, sembriamo un po’ dei quadri di Picasso, e alle due del mattino, e crolliamo sul letto della nostra nuova stanza. A nessuna viene in mente di fare la doccia. Sipario.

Ma di Cuenca bisogna dire anche altro. Ad esempio, che al Museo Panam Hats – Homero Ortega Panama Hats, si creano i Panama, che no, non sono prodotti a Panama. Mi spiego meglio: questi cappelli che sono patrimonio dell’umanità e che sono stati indossati da celebrità e grandi personaggi storici (da Pavarotti a Judi Dench, da Humphrey Bogart a Ernest Hemingway, per dirne un paio), sono arrivati sì a Panama e da lì sono partiti anche alla volta dell’Europa e ben oltre, ma le loro radici sono in Ecuador, precisamente nella regione occidentale del Manabi dove sapienti mani artigiane intrecciano i fili di fibra della palma toquilla, dopo che sono stati fatti bollire.

La lavorazione è molto accurata. Anche se è noto che questo cappello tenda a scolorirsi, quando arriva nelle nostre mani i suoi creatori provvedono ad intrecciare il corpo principale del copricapo solo in alcune ore del giorno, all’alba o al tramonto, per evitare che il sudore rovini il colore e la qualità della paglia. Durante la visita al museo (altamente consigliata), un’eco di partita di calcio mi arriva all’improvviso: l’Ecuador oggi gioca contro l’Olanda. Seguendo il baccano, mi sporgo dentro alla stanza da cui arriva il tifo: lì, diversi artigiani stanno seguendo i Mondiali di calcio. Saluto tutti urlando “Forza Ecuador”, e tornando sui miei passi, mi rendo conto che si tratta di un luogo di lavoro “illuminato”: a disposizione delle dipendenti, ad esempio, ci sono stanze per l’allattamento; per tutti gli operai c’è almeno una cucina.

Di Cuenca, poi, mi ricordo le cupole blue della Cattedrale de la Inmaculada Concepcion (conosciuta anche come Catedral de Comayagua), una delle più grandi cattedrali del Sud America. Ma soprattutto, mi ricordo la quinceañera davanti al suo portone principale: sembra una principessa pronta per andare al ballo nel suo abito rosa, un diadema, il bouquet tenuto con cura tra le mani immacolate.

Intorno le girano non solo i familiari, ma anche un paio di fotografi professionisti e allora mi avvicino e chiedo se posso fotografarla. La mamma è la più entusiasta e, pensando che non sappia cosa stia succedendo, mi spiega la situazione: la quinceañera è una celebrazione culturale molto importante in molti paesi del Sud America e in Ecuador, e segna il passaggio di una ragazza dall’infanzia alla condizione di donna nel giorno del suo quindicesimo compleanno. Questo evento elaborato e significativo comprende in genere una cerimonia religiosa, come una Messa cattolica, seguita da un ricevimento festoso con parenti e amici. La quinceañera riceve anche dei doni simbolici durante i festeggiamenti: una croce, una Bibbia e uno scettro, che rappresentano diversi aspetti della sua vita e dei suoi valori. La mamma poi velocemente deve salutarmi: sta per iniziare la seconda parte dei festeggiamenti – balli, musica, cibo e discorsi, ricordi preziosi sia per la giovane principessa che per la sua famiglia.

Di Cuenca, ricordo anche la Plaza de las Flores vicino alla Cattedrale. Una delle farmacie più pittoresche di Cuenca (e forse dell’Ecuador) è situata qui e vende un’ampia varietà di prodotti artigianali con proprietà medicinali realizzati dalle monache carmelitane che elaborano con particolare cura vino ricostituente, sciroppo di ravanello, bevande multivitaminiche, miele, lozioni per i dolori muscolari, creme per combattere i problemi della pelle e, naturalmente, la popolarissima “agua de pítimas”, una bevanda che viene prodotta da molto tempo nel convento di Carmen de la Asunción, dove le suore coltivano i loro giardini pieni di piante ed erbe medicinali. La loro tradizione di preparare infusi di ogni tipo li ha portati a inventare questa peculiare bevanda preparata con petali di rosa e di garofano, valeriana, verbena limonina, limone e altre erbe. Quando scoprirono che aveva eccellenti proprietà medicinali ed era anche deliziosa e rinfrescante, decisero di iniziare a venderla al pubblico più di 70 anni fa.

In mezzo al mercato dei fiori, poi, incontro una curandera, che sbattendo delicatamente dei rami di alberi intorno ad una giovane ragazza che indossa la maglia della nazionale ecuadoregna, la libera dalle energie malsane.

Alcuni stand vendono anche maschere della tradizione del paese: la più bella, che ho comprato e che ora se ne sta nella mia cucina, è quella del Diablo Huma. Il suo nome significa “spirito dell’acqua” e si riferisce a due concetti: il principio energetico vitale e quello di persona iniziata. La sua origine si trova nella mitologia caranqui che narra di un viaggio iniziatico. In Ecuador, viene colloquialmente descritto come un essere che si è immerso per tre giorni in una cascata per stringere un patto con il diavolo e acquisire il suo potere e le sue abilità di combattimento per gli incontri che dovranno avere. Per evitare di riferirsi al “diavolo” nella parola, di solito viene chiamato aya huma, che significa testa dello spirito. Luoghi come questo mi hanno fatto innamorare dell’Ecuador: questa commistione tra sacro e profano, tra realtà e magia naturale (ne ho parlato anche in questo articolo, dedicato a Quito).

Camminando poi per una decina di minuti dal centro della città, si arriva al fiume Tomebamba, un luogo perfetto per passeggiare e lasciarsi alle spalle la città popolare. In un gioco di specchi, ho avuto la sensazione di non essere in Sud America ma di essere tornata in Europa: il fiume è fiancheggiato da case coloniali che sono passate da generazione in generazione, molto fotogeniche che costeggiano uno stretto sentiero ben noto agli abitanti del luogo, che vengono qui per andare in bicicletta, fare jogging o fare un picnic ogni giorno, ma soprattutto nei fine settimana. Mi siedo con i miei compagni di viaggio sull’erba, e osserviamo la vita che passa.  

L’ultimo ricordo di Cuenca è situato a soli 30 km da questa splendida città: il Parco Nazionale El Cajas è un luogo unico per molte ragioni. Formatosi migliaia di anni fa grazie all’attività tettonica e all’erosione glaciale, il Parco Nazionale El Cajas è composto da chilometri e chilometri di colline beige in pendenza, lagune di un blu intenso e una varietà di piante davvero sorprendente che mette in evidenza l’altitudine unica della regione.  Il termine “Cajas” deriva infatti dalla parola “cassa”, che in quechua significa “porta delle montagne innevate”, probabilmente perché El Cajas si trova proprio alla base delle Ande, separando le imponenti montagne dalle pianure circostanti. Brullo e aperto in alcune parti e densamente vegetato in altre, questo luogo presenta tutti i tipi di ecosistemi racchiusi in un’unica regione. Il motivo del paesaggio da favola di Cajas è la sua altitudine unica.

Essendo stata modellata dall’attività glaciale, il parco presenta un’interessante miscela di altitudini più basse e più alte, con paludi e laghi nelle zone intermedie. Al di sotto dei 3.500 metri, il parco è composto da sempreverdi e alberi vivaci, di solito più alti rispetto a quelli più in alto. A partire da 3.500 metri, invece, il paesaggio è noto come páramo, o prateria d’alta quota. Quest’area è costituita da piante ed erbe corte e resistenti e costituisce le porzioni più ampie e aperte del parco. Sono note per la loro struttura più spinosa, solida e tozza, poiché si sono evolute in modo da assorbire l’umidità dalla nebbia a un’altitudine altrimenti priva di umidità.

Se c’è una pianta per cui il Parco Nazionale El Cajas è famoso è l’albero Polylepis, o “Albero di carta”. Questo tipo di albero è alto, sempreverde e molto fitto. Lo riconoscerete subito dalle sue foglie corte e tozze e da quelli che sembrano rami morti (non credo che lo siano davvero!). Fate attenzione perché, se vi avvicinate troppo, potete procurarvi un brutto graffio. Un altro elemento affascinante di questo parco sono le foreste di quinoa che costellano il percorso a ogni passo qui a circa 4000 metri slm: questi alberi meravigliosamente strani hanno rami in gran parte spogli, ma sono noti per i loro tronchi deformati e ventosi. Si muovono in picchiata e si contorcono in modi davvero fantastici.

L’abbondanza della vita è ovunque in Ecuador. 

 Cartoline dall’Ecuador continentale   Galápagos 

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