Il fregio di Beethoven – Palazzo della Secessione Vienna
Prima di iniziare a leggere le mie parole, fermati.
Metti su le cuffie, spara il volume a mille e ascolta questo in loop: https://www.youtube.com/watch?v=vSPYFTeSmDU.
È l’Inno alla Gioia. È il componimento più famoso di Friedrich Schiller, drammaturgo e poeta tedesco. Beethoven ne seleziona alcuni brani per la sua Nona Sinfonia.
Il tema principale ed ispiratore dell’opera la fratellanza di tutti gli esseri umani, oltre che l’esaltazione della gioia, un obiettivo a cui l’uomo può giungere solo liberandosi dalla cattiveria, dall’egoismo e dall’odio.
Ok, ora possiamo cominciare con la mia storia.
Se ti capiterà di viaggiare a Vienna, visita la Casa della Secessione. Io ci sono arrivata in un pomeriggio di pioggia di inizio febbraio 2020. “Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit”, ovvero “A ogni epoca la sua arte, all’arte la sua libertà”, dice la scritta che troneggia sulla porta d’ingresso e che, durante un periodo di buio estremo, intorno al 1938, viene rimossa. Ma torna, lei. Torna lì più forte di tutto.
3000 foglie ricoperte d’oro creano una cupola traforata e ornano il tetto di questo edificio che diventa per i Secessionisti il loro spazio espositivo ufficiale. A me è sembrato d’entrare in un tempio, di essere un’iniziata alla bellezza, all’arte, alla forza attraverso cui l’immaginazione ci libera dalle catene della normalità.
Dall’ingresso, si scende al piano inferiore dove si accede al Fregio di Beethoven.
Mi vengono date delle cuffie in dotazione e penso che si tratti della spiegazione: no. Si tratta appunto dell’Inno alla Gioia. Mi sembra che la musica, la leggerezza, la libertà di questo brano mi entrino nelle ossa mentre mi aggiro insieme agli altri visitatori lungo i 34 metri che rappresentano l’opera di Klimt.
Sorrido, sorrido perché in quei minuti sono puramente felice.
Klimt realizza il Fregio per una delle esposizioni dei Secessionisti all’inizio del 1900. Al centro della mostra c’era un busto – ora scomparso – di Beethoven, da cui proviene il titolo dell’opera.
I 34 metri sono divisi in tre parti: si inizia con la “Ricerca della Felicità”, si passa attraverso allo scontro con le “Forze Ostili” e si arriva al trionfo appunto dell’“Inno alla Gioia”.
Faccio avanti e indietro più volte e rimango almeno un’ora. Il Fregio è ad un’altezza di almeno un paio di metri dal pavimento, quindi mi rendo conto che me ne sto col naso all’insù mentre cammino. Paradossalmente, questo luogo d’arte me ne ricorda un altro: la Chiesa di San Lorenzo in Piazza Castello a Torino. Anche qui, alziamo lo sguardo, tendiamo alla luce, alla speranza.
Seguo il Cavaliere che è il protagonista del racconto di Klimt lungo le pareti. Lo vedo provato quando incontra le sensuali Gorgoni e Tifeo, l’orribile scimmia immensa che rappresenta il tifo che aveva piegato l’Europa nel 19mo secolo. Ma corrono le note nelle mie orecchie, corrono e mi sembra che mi accarezzino l’anima e che mi incoraggino.
Il Cavaliere perde la sua corazza, ma si libera dai mostri delle Forze Ostili.
Raggiunge il riscatto dalla dualità del Bene e del Male attraverso l’Arte e la Poesia che hanno i colori dell’Oro. Passa attraverso un coro di donne bellissime e si rifugia in un abbraccio immenso, un bacio che va a tutto il mondo. Per Klimt e per i Secessionisti che amavano l’utopia, solo l’arte aveva un potere salvifico.
Alla fine del suo viaggio, il Cavaliere è nudo, muscoloso ed è visto di spalle, ma ha i piedi legati a quelli di una donna. Entrambi i corpi sembrano volano in una nuvola d’acqua. Trionfano la speranza, la leggerezza, l’accoglienza.