La cattedrale di Tampere
È ferito. Piccole gocce di sangue macchiano le sue ali che spuntano all’altezza dei polmoni e coprono alcune ciocche bionde. Una fascia bianca gli cela gli occhi. O forse le cela gli occhi. Chi lo sa, di questi esseri di solito non si specifica il sesso, soprattutto in una cattedrale.
Poco importa, in fondo: il suo profilo è delicato, la sua pelle pura come la veste che indossa, come i bucanevi che stringe tra le dita della mano destra e uno dei lati della portantina su cui è adagiato. Per un istante, mi sembra di percepirne il profumo: per un istante prego che quei fiori possano lenire il dolore di queste spalle piegate dalla sofferenza.
Poi, mi rendo conto della grandezza di questo quadro: racconta dell’importanza degli Altri. O per lo meno, io decido di interpretarlo così: decido che l’essenza dell’opera di Hugo Simberg è l’Amore, il sostegno che si riceve dal prossimo nel momento del bisogno.
Spesso arriva da chi non ci aspettiamo nulla, e così anche qui, sullo sfondo di una baia nordica, ecco due improbabili Salvatori, due bambini seri, vestiti da adulti in abiti scuri: da loro arriva l’aiuto.
Sono loro a dare conforto all’Angelo Ferito, a portarlo verso una qualche cura, a farlo riposare sulla barella. Uno nemmeno mi osserva, tira dritto, nella sua giacchetta nera. L’altro no, l’altro mi guarda dritto negli occhi, dritto nel cuore. Sembra dirmi: “E tu cosa faresti se qualcuno ti chiedesse aiuto? Cos’avresti fatto tu, se avessi trovato un Angelo Ferito come questo, ai lati della strada?”. Non lo so cosa farei. Non lo so cos’ho fatto in passato. Non sono certa d’essermi sempre comportata come te, amico dai pantaloni blu che mi squadri dal muro di questa inusuale cattedrale finlandese. Cerco di fare il mio meglio.
Ma soprattutto in una cattedrale
Nell’arte, la vita viene spesso rappresentata come una pianta. L’Albero della Vita. Seminare e attendere con pazienza. La Rosa del Piccolo Principe. Eccetera eccetera.
A curare decine di piante – che sembrano venire da un altro pianeta – qui, invece, c’è la Morte: tre scheletri sono i giardinieri di questo giardino dove nessun alberello cresce da solo.
Il primo scheletro vuota dell’acqua da un annaffiatoio. E tra tutti gli oggetti, proprio questo è quello che mi rimane incollato negli occhi mentre me ne sto lì a guardare questa serra che sarebbe strana ovunque, ma soprattutto è insolita in una cattedrale: è proprio quell’annaffiatoio a farmi sorridere, perchè rappresenta la bellezza della vita. È comune, verde, è simile a quello che chiunque di noi ha in giardino, se ha la fortuna di avere un giardino. La vita a volte è fatta di cose banali e sono proprio queste a mancarci, quando scompaiono.
Il secondo scheletro, nel suo abito talare, abbraccia una pianta azzurra. Sembra rincuorarla: tutte le cose passano, e anche questa serra forse è un passaggio da questo mondo verso qualcosa che non ci è dato capire ora. Le manine ossute del giardiniere la stringono con dolcezza al petto senza muscoli. Stai tranquilla, piantina. Non sei sola, qui.
Il terzo scheletro mi dà le spalle. Cosa fa, laggiù? Prega? Chiacchiera anche lui con le altre piantine? Oppure guarda in lontananza le radici degli alberi di cui non si vedono le fronde? Secondo me, è curioso e osserva il sentiero che si apre al centro del quadro:
“è stato molto bello,
finisce la tarda estate,
è stato molto bello,
si prolungano le ombre oltre la sera,
non domandarmi dove porta la strada,
Seguila e cammina soltanto”.
Seguo un percorso inesistente in mezzo alle file di sedie e poi prendo le prime scale a destra, vicine all’ingresso. Salgo di un piano: da quassù, la cattedrale diventa ancora più affascinante. Assomiglia ad una sala da ballo. La luce borgogna e viola, violenta quasi, scoppia dalle immense vetrate e si riversa ovunque. Raggiunge in maniera quasi sensuale ogni oggetto, i gradini, l’organo, i banchi dei fedeli, accarezza i miei passi, e sembra proprio condurre il mio sguardo lassù, al soffitto.
Mi aspetto un busto ieratico e benedicente, un Pantocratore, creatore di tutte le cose universali. E invece no: lassù, nel punto più alto della attedrale, a guardare sornione la congregazione dei credenti c’è un serpente con la bocca spalancata, ma piena di quella Mela.
Ad illuminarlo, 8 luci. 8 come l’infinito.
E lo sfondo è rosso, rosso come il peccato, come la corruzione.
Rosso come l’amore, che si fa in mezzo agli uomini.