Transmongolica

Lago Baikal

636 chilometri da nord a sud. 60 chilometri in larghezza. Profondo 1637 metri sulla costa occidentale. La Perla della Siberia. Il regalo di placche tettoniche ubriache che girano, e diventano così il lago più profondo del mondo, oppure il quinto oceano più grande di questa terra, che spacca in due il continente asiatico. La temperatura dell’acqua non sale mai sopra ai 15°C. I nuotatori più arditi soffrono di vertigine nel momento in cui decidano di sfidarne le onde cristalline. Se guardi giù, in alcuni punti, arrivi a vedere fino a 40 metri in profondità. Volare, quasi. Ci puoi guidare sopra, in inverno, quando l’acqua si trasforma in ghiaccio solido spesso più d’un metro. Gli animali, i pesci e le piante che gorgogliano in questa radura preziosa sono unici ed endemici. L’omul, la golomyanka, la nerpa: chissà com’è, essere un esperimento naturale irripetibile al mondo.

A 70 km dal lago Baikal, sono scesa ad Irkutsk, la Parigi della Siberia, chilometro 5185 nel mio itinerario. Ci arrivo intorno al 13 di settembre. Tra il 17mo e il 18 secolo, i Buriati vengono divelti dai cosacchi che galoppano incessantemente verso l’Alaska da questa parte di mondo, e fanno di Irkutsk la base di lancio per il commercio di pellicce ed avorio verso la Mongolia, il Tibet e la Cina in cambio di seta e tè. Qualche decennio dopo, inizia la corsa all’oro nel bacino di Lena, che oltre ad andare a rimpolpare le casse del governo, contribuisce anche a far crescere il numero delle case: l’eredità di quell’epoca è ancora disponibile al viaggiatore nelle persiane intagliate che ornano quasi tutti i quartieri. E davanti a quei merletti legnosi, come sempre mi fermo, e mi chiedo che cosa stia succedendo dentro: c’è qualcuno che guarda la televisione, dall’altra parte? Un ragazzo studia matematica nella sua camera. Un cane giocherella in cucina con un osso spolpato. Una mamma piange.

Le più intarsiate sono in via Dekabrskikh, la strada che ricorda i nobili ribelli romantici passati alla storia con il nome di “Dicembristi” che a dicembre del 1825 occupano il senato a San Pietroburgo e tentano goffamente di rovesciare il regno nascente dello Zar Nicola I. Non si inizia una nuova sovranità con una strage, e dopo averne falciati soltanto 181 in piazza, Nicola I decide di indirizzare gli altri ad un esilio di lavori forzati in Siberia. Le loro compagne allora si sganciano dalla vita comoda e raffinata di San Pietroburgo, aspettano di vedere i loro uomini a Chita o ad Irkutsk per mesi, per condividerne un destino in salita e nel frattempo fondano ospedali, scuole, società scientifiche e dirigono i primi giornali.

Di Irkutsk, scelgo di dimenticare i tragici esperimenti architettonici di Stalin, e la cattedrale di Bogoyavlensky che sembra Disneyland in versione siberiana. Ricordo invece la chiesa del San Salvatore: la bellezza slavata dei muri, gli affreschi sfregiati all’interno. I passi silenziosi di una vecchia con un foulard in testa a fiori che si aggira tra le Madonne nere appese ai muri davanti all’iconostasi. Soprattutto, però, questa città mi ricorderà sempre quella parata militare, quei ragazzini che marciano come bambolette di plastica. Non hanno vita negli occhi, non hanno un cuore che pulsa e non sembrano nemmeno avere ormoni galoppanti, mentre li fotografo da lontano ma anche da vicino. Mi girano in testa le parole di “Empty Spaces” dei Pink Floyd: what shall we use to fill the empty spaces? Where we used to talk? How shall I fill the final places? How should I complete the wall?

E poi c’è stata Listvyanka – 70 chilometri in macchina da Irkutsk. Il mercato del pesce, un’area picnic abbandonata alla quale arrivo in preda ad un’insonnia molesta alle 5,30 del mattino e quella barca enorme abbandonata come un paio di scarpe rotte, i pasti impossibili della vedova che mi ospita nel suo chalet dove anche il gabinetto è in legno, una crociera di cinque ore sulle acque più profonde del mondo, una camminata sui binari di quella che non è diventata alla fine del 19mo secolo una parte della Transiberiana. E poi Ross e Ailsa viaggiatori australiani con cui condivido il terrore per le enormi Mercedes dai cerchioni in oro zecchino, che arrivano con costanza imbarazzante al bar del villaggio e scendono da Mosca e ospitano piedi riposati in mocassini Prada. Di Listvyanka, però, ricordo soprattutto un’alba. Ho visto una foca nerpa e ho sentito la grandezza della vita che scorre ed il senso di libertà sconfinata di essere vicina alla Mongolia. La testa spalancata e curiosa. Le narici liberate dalla comodità dell’occidente.

 Siberia   Mongolia parte 1 

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