Lascia che ti racconti della nostra isola
Lascia che ti racconti del sale e del sole
Le onde dal traghetto che ci porta da Rafina a Marmari sono coperte d’oro, in mezzo a questo tramonto. La salsedine corrode le sbarre di protezione della nave. Il sale si appoggia inaspettatamente sulle labbra e sulle gambe, e corre nell’aria. Il sole va a coricarsi dietro alle montagne arse dagli incendi dell’estate del 2018. La Grecia brucia, da qualche parte là, oltre quella bandiera blu e bianca che sbatte nel vento.
Lascia che ti racconti del vento e della velocità
Il vento ci accompagna per gran parte del viaggio e fa ruotare centinaia di pale eoliche, posizionate ovunque sulle alture della nostra isola. Sembrano stelle alpine, viste dall’alto. Sembrano stelle, viste di notte.
Su una delle vie più panoramiche, che da Karystos ci porta a Platanistos, il vento scompiglia i bassi arbusti di rosmarino in fiore. Muove una nuvola, fa spuntare il sole che cambia il colore di questa terra deserta e ci regala un tappetto viola che ci fa sorridere per niente. Così, proprio per niente. Perché si sorride per cose facili, alla fine.
La velocità qui non esiste. Il fondo stradale è spesso dissestato e costellato di buche. Ai lati delle vie, troppe chiesette ricordano chi lì è partito per il viaggio più lungo di tutti. Potevi mettere un casco, ogni tanto. Potevi scalare, invece di accelerare. Potevi non sorpassare. Il Fato invincibile persino agli Dei, come diceva la Sibilla nell’Oracolo di Delfi. In questi giorni di Genova, quelle casette ai lati della strada ci fanno pensare involontariamente alle Moire, figlie della Notte, che reggono fili invisibili.
La velocità qui non può esistere. Un’unica strada conduce da sud a nord, da Karystos ad Agia Anna: 180 chilometri, quasi 4 ore. “Siete stati al Nord? Ma perché?”, ci chiede stupito il nostro padrone di casa. Il Nord ed il Sud non si capiscono – forse – nemmeno qui. Non importa dove capitiamo durante questo viaggio, però: ci trattano tutti come figli. Sarà che siamo giovani, sarà che diciamo yasas a chiunque, sarà che la nostra isola non viene assolutamente presa in considerazione da viaggiatori non-greci – sarà tutto questo: a Platanistos, dove ci fermiamo a visitare il Ponte, vedono che abbiamo caldo e ci vengono incontro e ci regalano l’acqua; nella piazzetta della chiesa di Agia Anna, 3 anziani ci cominciano a parlare in greco, perché sembriamo greci, e allora noi rispondiamo in italiano. Nessuno capisce nulla dell’altro, tranne “Torino” e “futbol”. Facciamo una conversazione di sorrisi, mentre inspiegabilmente la donna del gruppo, tutta bardata di nero, fruga in un sacco pieno di scarpe spaiate che va ad offrire in giro per il paese.
Lascia che ti racconti delle storte alle caviglie e dell’alleanza franco-greco-italiana
Nei giorni sulla nostra isola, ci continuiamo a ripetere che bastano un paio di sandali. I piedi liberi se ne stanno beati nell’aria caldissima e percorrono strade a precipizio sul mare, come quella che ci porta a Capo Kafireas. “Sembra l’Irlanda”, dico ad alta voce. Gli dei mi devono aver sentita, e allora hanno riso. Scesa dalla nostra macchinina a noleggio che ringhia ma non molla mentre ci avviciniamo a Cavo D’Oro, mi storco una caviglia. Per un istante, rimaniamo tutti seri. Poi, a causa del male, comincio a ridere con i miei meravigliosi compagni di strada. Ridiamo noi, ridono gli dei. “Ti ricordi “Buona Fortuna” a Santorini?” (link al primo articolo sulla Grecia). La Grecia è una storia di caviglie girate, da sempre.
La nostra isola è anche una storia di sabbia.
Sabbia che, come uno spillo, ti viene sparata nelle gambe e nella schiena a causa del fortissimo vento, ma tu fai finta di fregartene perché guardi Paxamida Island e ti manca il fiato dalla bellezza della chiesetta, su quel pezzetto di terra, lì in mezzo a quell’acqua blu come una piscina.
Sabbia che ci accoglie e non ci molla, quando rocambolescamente ci andiamo ad impantanare su una delle spiagge di Karystos. Ci salvano due greci: lui un ingegnere meccanico, lei una criminologa. Che solo in viaggio ti può succedere di incontrarla, una coppia così. E arriva anche un francese. Ci dice il suo nome (Jean Claude) e a noi viene immediatamente in mente Jean Claude di “Mai dire Gol”. Perché siamo persone adulte. Sagge. Con due pietre, quattro assi di legno recuperate chissà dove sulla spiaggia, dieci bestemmie in ligure, piemontese e veneto, siamo fuori. “Vorremmo pagarvi il disturbo”, diciamo alla Kay Scarpetta greca. Lei si mette a ridere e dice: “Ma quali soldi. Le persone devono aiutarsi sempre”. Ci hanno aiutati a casa loro, loro.
Lascia che ti racconti degli “Assemblati” e di Bruno Lauzi
Abbiamo una macchina che sembra una scatoletta di tonno, ma che si è rivelata indistruttibile ed eroica.
L’impianto stereo risale al 1980, e quindi noi ci siamo portati dietro una cassa – avete presente? Quelle che si comprano al mercato per pochi euro e appena le accendete, eccolo il Maracanà, dentro una Micra Nissan. Solo che la batteria regge al massimo un paio di ore, ma chi se ne importa: a farci compagnia abbiamo avuto canzoni che raramente scavalcavano gli anni 80. Tropicana, Bruno Lauzi, The Who, i Beatles di “Revolver”, Luigi Tenco, Don McLean.
Non parliamo del sistema GPS. Non pervenuto. E allora, via di cellulare! Ed altri fili. Immaginate il cruscotto della nostra macchina. Ed immaginate anche il sedile posteriore, dove, oltre ad uno di noi a turno, c’era anche un enorme salvagente, altri fili, sabbia, borracce piene d’acqua recuperata alle varie fontane incontrate sulle strade, ciabatte, alcuni costumi appesi fuori per farli asciugare, teli mare, creme solari, bulloni, copri fili saltati in una delle innumerevoli buche.
A quel punto, ci siamo auto-ribattezzati “Gli Assemblati”. O gli Zingari. Ci piacevano entrambi, come soprannomi. Ho avuto spesso l’impressione che, passando attraverso i vari paesini, anche i gatti smettessero di guardare i polpi ed i calamari appesi all’aria, e si voltassero a guardare il circo che arrivava, per un istante. E noi, a tre di questi gatti ci siamo affezionati: a differenza di quelli incontrati nel primo viaggio in Grecia, ciechi e storti, questi sulla nostra isola erano piccoli e ci vedevano bene e ci facevano festa tutte le sere quando rientravano a casa. Sarà che siamo dei duri, ma abbiamo in fondo il cuore tenero: li abbiamo
chiamati Bruno Lauzi, Ornella Vanoni e Vietnam. Vietnam era un gatto devastato dalla vita. E ok, dai. Non aveva un occhio. Per tutti e tre, comunque, mettevamo via un pezzetto di cibo ad ogni pasto. Ogni giorno, un pezzo di cuore per quei sacchetti di pulci.
Lascia che ti racconti di Mr. Sgorbietto e della vlita
Ci ha accolti come se ci conoscessimo da una vita. Ci ha elencato 130 nomi di pesci e crostacei e ne abbiamo capito solo uno: sardinas. Per quanto riguarda tutti gli altri, ci siamo fidati. O meglio: ci siamo affidati con grazia. Il cibo in Grecia è la freschezza degli ingredienti, i profumi delle verdure, la vlita bollita e poi condita col limone, i calamari grigliati che neanche volendo puoi smettere di
mangiare, gli espressi shakerati, la Malamatina che ha accompagnato moltissime sere sul nostro terrazzo a scrutare il cielo alla ricerca delle stelle di San Lorenzo.
Di Mr. Sgorbietto ci siamo fidati, per tutto questo e molto altro. Soprattutto perché, mentre guidavamo via dal suo ristorante per l’ultima volta, l’ultimo giorno ci ha urlato: “Sempre forza Toro”.
Hai saputo rendere una fiaba il nostro viaggio…abbiamo riso e ci siamo commossi ricordando la nostra isola…Grazie pi!È stata una vacanza incredibile!!!Aspettiamo altri racconti…
Grazie per il commento, compagni di viaggio. C’è solo un problema: siamo tornati! Dobbiamo davvero smetterla con questa storia del ritorno. E poi, chissà come stanno Bruno, Ornella e Vietnam! 🙂