Le Sud: banale?
Banale
“Sicuramente la Francia per te sarà banale”: così m’aveva scritto qualche giorno prima della partenza una conoscente.
Devo ammettere che lì per lì non ci avevo fatto troppo caso: ero troppo presa dai preparativi, dall’emozione del cambiamento. Nelle settimane successive, invece, avrei pensato e ripensato molto a quel messaggio perché (spoiler) le mie settimane in quella parte d’Europa sono state tutto fuorché banali.
Soprattutto, però, avrei rimuginato spesso su quelle parole chiedendomi se non fossero il sintomo di due patologie dilaganti:
- La prima, orrenda, quella che colpisce coloro che concepiscono come viaggio solo ciò che è lontano geograficamente;
- La seconda, altrettanto destabilizzante, è la malattia che io chiamo del viaggiatore sensazionalistico: viaggiare per loro significa necessariamente andare in luoghi incredibili, ma seriali, dai colori forti e sgargianti, ma forzatamente esotici (che poi, esotici per chi esattamente).
Io non lo so se ce l’ho una definizione di viaggio. Posso solo dirvi che viaggiare per me significa cambiare, imparare, incontrare e non ho bisogno di attraversare il mondo a volte per trovare la meraviglia, per capire chi incontro, per avvicinarmi ad un luogo che mi farà crescere nuovi occhi. Non tengo una lista delle nazioni che ho visitato perché non sto facendo una gara con nessuno. Se un luogo mi interessa o mi affascina ci vado. Potrebbe essere in Ladakh così come, appunto, il Sud della Francia.
La sera prima della partenza
L’emozione della partenza è ben nota a chi, come me, ama viaggiare. Pensi e ripensi a quello che ti potrebbe servire al di là delle Alpi, in quello che con grande poesia ti appare come un pezzo di vita nuova. Nel corso degli anni da viaggiatrice ho imparato che alla fine non hai bisogno di così poi tanto quando parti, che la troverai una lavatrice, che un negozio o un mercato ci saranno praticamente sempre, e quindi alla fine di bagagli per questa avventura francese ne avevo davvero pochi: due borsoni da palestra contenevano tutti gli indumenti, e uno zaino per 4 o 5 libri che avrei voluto leggere e portare insieme a me, e il computer e un paio di caricabatterie. Fine.
La sera prima della partenza, però, oltre all’emozione e alla gioia, nella sfiga più totale che contraddistingue molte delle mie storie di viaggio, è successo un bel guaio: mi hanno scassinato l’auto. E allora ho passato le ultime ore a casa tra la caserma dei carabinieri e le telefonate alla mia assicurazione. Tempismo perfetto. Quando però ho capito che sarei comunque potuta partire lo stesso perché la chiusura centralizzata della mia Panda funzionava, mi sono detta: “Andiamo”.
E all’alba del 1 ottobre 2021 sono partita: a Torino pioveva forte e il cielo era pesante e grigio, e nel traffico congestionato come al solito, mi sono detta che queste sarebbero state le cose che non mi sarebbero mancate al di là del Passo del Monginevro.
ecco, sta cosa della malattia del viaggiatore seriale per cui diventa banale qualsiasi meta raggiungibile senza una mongolfiera o che offra letti comodi o che ti costringa a mangiare larve e bere latte di cammella l’ho riscontrata anch’io: ma sta gente esattamente che problemi ha?
Ciao Lorenzo, non sei il solo che mi scritto in relazione a questo post un po’ polemico 🙂 Ho spesso avuto l’impressione come te che, soprattutto negli ultimi anni, le due “patologie” siano peggiorate: sia quella delle “Avventure a tutti i costi”, sia quella dei viaggi che vengono vissuti e raccontati in modo seriale. Non so dire che cosa abbia portato a questo modo malsano di vivere il viaggio. So solo che nessuna delle due opzioni mi emoziona particolarmente, e magari io scrivo di “luoghi banali”, ma li vivo e li scelgo con amore. Non importa quanto lontani geograficamente o con che mezzi io ci arrivi.