Le Sud: churros, baguette e halal
Molte persone mi hanno chiesto come e cosa ho mangiato in Francia durante questa esperienza. Alcune me l’hanno chiesto con genuino interesse, altre con mal celati preconcetti relativi alla cucina dei nostri amici d’oltralpe. Nel continuare in questa saga delle banalità sul viaggio, a me a questo proposito viene da dire che se viaggi e non provi i cibi locali, viaggi solo a metà. Ma mi viene da aggiungere che oltre a saggiare i ristoranti e i baracchini della mia destinazione, cerco – se il tempo me lo permette – di andare al mercato, nei negozi e nei supermercati del posto dove mi trovo, perché nonostante la globalizzazione essi rappresentano per me uno degli specchi della cultura, dell’economia e della storia del paese.
Vivendo nel centro storico di Beaucaire, arrivavo a tutto questo nel giro di massimo 10 minuti a piedi. In una delle mie prime visite al supermercato, ho notato una cosa che raramente ho visto in altre nazioni europee: su quasi tutti i prodotti, c’era una cartina ben visibile della Francia che faceva vedere al consumatore dove, ma soprattutto da chi, è stato prodotto quel particolare alimento. Un segnale che in Francia viene data particolare importanza alla produzione di origine nazionale.
Churros e baguette e halal
Le mie peregrinazioni culinarie mi hanno anche portata in contatto con le altre etnie che abitano in questa cittadina e che avevo già inizialmente incontrato nelle risate dei bambini della scuola elementare. Nelle strade e nei negozi del centro storico di Beaucaire, infatti, si parla francese, ma si parlano soprattutto spagnolo e arabo (in quest’ordine), perché qui una grande comunità proveniente dalle molteplici ex-colonie nord-africane convive con quella sud-americana, arrivata decenni fa per trovare lavoro nell’agricoltura ed ora impiegata anche nell’edilizia.
Nelle mie settimane a Beaucaire, ho incontrato spesso proprio quest’ultima fetta della cittadinanza mentre alla sera ritornava a casa, coi pantaloni da lavoro sporchi di cemento e le scarpe antinfortunistiche: la prima volta, li ho notati perché scendevano da un furgone su cui campeggiava la scritta Dios te ama, seguito poi dal nome di una Madonna o di una Santa. Dopo un paio di incontri nei tardi pomeriggi tiepidi del mio ottobre francese, ho iniziato a salutarli nel mio stupido spagnolo. Magari sbaglio nella mia analisi, ma mi sono sembrati allo stesso tempo contenti e straniti, come se la loro presenza non fosse sempre notata o accettata lì. M’è sembrato più volte d’assistere ad una non-convivenza reale tra le varie etnie che si rifletteva anche nelle vetrine dei negozi: le boulangerie, gestite da francesi, vendevano le indimenticabili baguette, mentre piccoli baracchini – gestiti in spagnolo – proponevano il dolce profumo dei churros.
Questo totale (o apparente, chi lo sa?) disinteresse (o antagonismo) tra le componenti culturali e linguistiche della società era ancora più evidente quando osservavo la parte di popolazione che si esprimeva in arabo. Non sono una grande mangiatrice di carne, ma oggettivamente quella che trovavo al supermercato era spesso di pessima qualità e rimaneva sugli scaffali a lungo prima di essere cambiata. Allora, il terzo giorno a Beaucaire sono entrata in una macelleria halal per vedere se almeno lì avrei trovato un prodotto migliore. Pochi secondi prima di entrare mi ero preparata la mia frasetta elementare: je ne suis pas française, mais si vous parlez lentement, je comprends. Che poi era bugia bella e buona, perché anche se il mio interlocutore avesse parlato alla velocità di una lumaca, io avrei comunque capito nella migliore delle ipotesi il 5%, sperando disperatamente di aggrapparmi a qualche parola che si assomigliasse tra il francese e l’italiano. La mia frasetta era il mio modo di avvertire il proprietario della macelleria che avrebbe, nel giro di pochi secondi, assistito ad uno spettacolo linguistico pessimo.
Mi ha sorriso da dietro la mascherina, e mi ha chiesto – in spagnolo – se per caso parlassi appunto spagnolo. E cari lettori, io a dirvela tutta lo spagnolo non lo so affatto: me lo invento. Ma a livello di comprensione, lo capisco meglio del francese, questo sì. E allora via, abbiamo iniziato questa conversazione in itagnolo, in cui ci siamo scambiati le domande di rito di ogni viaggiatore: da dove vieni, come mai sei qui, quanto resti, dove vai. Il tutto mentre lui mi preparava la bistecca più buona che abbia mangiato nelle mie settimane francesi.
Ad un certo punto, mentre stavo per pagare, mi ha mollato lì una frase che ho cercato di analizzare più e più volte, senza successo reale, nel corso degli ultimi mesi: gli italiani non sono come i francesi. Ma perché, i francesi come sono? E gli americani, come sono? E i bulgari, i vietnamiti, i portoghesi come sono? E gli italiani, come sono? Io a queste enormi domande etniche e sociali, dopo tutto questo viaggiare una risposta giusta, concreta e razionale non ce l’ho. So solo che a seconda della situazione storica, sociale, culturale ed economica in cui ci troviamo a muoverci, siamo sempre l’Altro di un altro. E le frontiere che per me (fortunata) non esistono, per altri sono muri enormi, altissimi, invalicabili. Spesso ci troviamo a parlare di razzismo e integrazione in modo tanto superficiale. Tutto quello che so dire che io una risposta a queste divisioni non ce l’ho. Cerco solo d’essere una brava persona quando viaggio e quando sono a casa. Cerco di capire il più possibile dell’Altro. Cerco la chiarezza.