Le Sud: scene di vita quotidiana a Beaucaire
Perché proprio a Beaucaire
Negli ultimi anni, in vari incontri in cui mi è stato chiesto di parlare o dei miei libri di viaggio o di viaggi in generale, una delle domande più frequenti è sempre stata: come pianifichi un viaggio? E la risposta è sempre, o quasi sempre stata la stessa: programmo e razionalizzo fino ad un certo punto. Penso infatti che troppi progetti in un viaggio precludano la parte migliore, la parte più naturale e inaspettata dell’andare. Penso che troppi prospetti distruggano una delle essenze stesse del viaggiare, ovvero quella di mettersi alla prova. Penso che in viaggio sia necessario lasciare andare e lasciarsi andare.
Ho applicato le stesse idee anche nella selezione di quella che sarebbe stata la “mia casa” in questa storia francese, ovvero Beaucaire.
L’avevo scelta con cura poetica, nei mesi precedenti alla partenza. Beaucaire è sulle rive del Rodano ed io una vita lontana da un fiume importante non ce l’ho mai avuta: la mia vita in Irlanda è stata guidata dallo Shannon, e la mia vita italiana ha camminato sempre accanto al Po. E inoltre, in Occitania e nella Camargue soffia il maestrale, su cui filano leggende e tradizioni che nemmeno potete immaginare.
L’avevo, però, anche selezionata con un po’ di intelligenza, cari lettori, perché non volevo buttare via un mese invano. A livello logistico, questo piccolo comune di circa 16mila abitanti era perfetto: ci sarei potuta arrivare tranquillamente in auto, e da lì, in caso la situazione sanitaria fosse deteriorata inesorabilmente o se si fossero presentati impegni lavorativi in Italia, me ne sarei potuta andare di corsa, senza affidarmi ad un aereo. Beaucaire era quindi fattibile, relativamente vicina a Torino e facilmente modificabile in questa epoca di continui cambiamenti.
In aggiunta, l’appartamento che avevo scelto era in una zona coperta da una una fibra internet a prova di bomba, che mi avrebbe permesso di non aver problemi a lavorare da questo Altrove meraviglioso.
A livello economico (ma anche a livello di interazione umana), poi, Beaucaire non è Parigi: il costo della vita è – a grandi linee – simile a quello di Torino, e quindi non mi sarei dissanguata in questo esperimento.
Inoltre, sempre a livello organizzativo, aveva altri due vantaggi: il primo, geografico e probabilmente furbissimo, è che vivere lì mi avrebbe permesso di arrivare facilmente in ogni destinazione pianificata o in macchina o in treno; l’altra ragione, assurda per chi non vive come me in una città in cui un parcheggio equivale ad un Sacro Graal, è stata la sua tranquillità a livello di traffico: a Beaucaire, avevo a disposizione un enorme parcheggio gratuito e sicuro a 5 minuti a piedi dalla porta di casa mia. Dopo due anni stanziali a Torino, immersa nel rumore e nelle bestemmie degli altri guidatori, questo cambiamento è stato straordinario.
A parte queste calibrazioni, ho lasciato che tutto il resto succedesse un po’ a caso.
Scene di vita quotidiana altrove
La mia casa era nel centro storico di Beaucaire.
Il primo lunedì di lavoro da remoto ho scoperto che si trovava di fronte ad una piccola scuola elementare: alle 8, ogni mattina, arrivavano i bambini a piedi, alcuni da soli, altri accompagnati principalmente dalle loro mamme. Gli alunni erano tutti di etnie diverse: oltre ai francesi, infatti, c’erano bimbetti imbacuccatati nelle loro mascherine colorate di nazionalità sud-americana. Dalla mia finestra, sentivo parlare della Bolivia e del Messico e dell’Argentina. Ogni giorno, poi, alle 11, alle 13 e poi ancora alle 15 suonava la campanella dell’intervallo e del pranzo e della pausa pomeridiana: a quell’ora esplodevano gli urli felici di questi piccoli esseri umani che si rincorrevano in un cortile che io non potevo vedere perché si trovava al di là di un muretto. Seguivo i loro ritmi mentre lavoravo serenamente.
Nella mia casa di Beaucaire, fin dai primissimi giorni, facevo dei giochi. Il primo aveva di solito luogo alla sera mentre preparavo cena: mi imponevo di accedere la televisione dove tutto era ovviamente in francese, ma di non guardarla e comunque cercare di capire di cosa parlasse il film o il programma che in quel momento veniva tramesso sullo schermo. Perché, cari lettori, io il francese lo capisco a mala pena e lo parlo ancora peggio, ma volevo in qualche modo cercare di migliorare la mia scarsissima capacità linguistica. Penso che i viaggi servano anche a questo: a provare a capire, a provare a farsi capire, a fare figuracce assurde in altre lingue. A volte, in questo gioco assurdo riuscivo a intendere a grandi linee quale fosse la tematica di quello che veniva trasmesso. Altre, non capivo una beneamata mazza.
Il palinsesto francese era variegato, ma tutto assolutamente doppiato come in Italia. Uno dei programmi il cui ricordo ancora oggi mi fa sorridere era una specie di Grande Fratello dal titolo miracoloso: Les Marseillais vs. Le Reste du Monde, ovvero I marsigliesi contro il resto del mondo. Ora, io non lo so perché i marsigliesi dovessero combattere contro il resto del pianeta, ma le avventure (soprattutto amorose) dei protagonisti erano incredibili: c’erano sfide fisiche, emozionali, filosofiche in cui ogni partecipante al gioco doveva cimentarsi. E grandi scoppi di risate, e liti, e ansie da prestazione, e baci lunghissimi che mi facevano capire una volta ancora come mai in inglese il verbo limonare diventi French-kissing. Questo programma, inoltre, mi riportava alla memoria altre trasmissioni altrettanto divertenti e totalmente kitsch che avevo visto altrove nel mondo, come Jersey Shore and The Only Way is Essex. E, cari lettori, io ad ascoltare questi ragazzi che si sbaciucchiavano e litigavano per delle scemenze, ridevo come una scema da sola nella mia cucina di Beaucaire.
Nella mia casa di Beaucaire, poi, facevo un altro gioco: giocavo con Jango. No, non il cacciatore di taglie di Guerre Stellari, quello dell’Attacco dei Cloni. Jango era il gatto dei miei padroni di casa: grassottello, bianco e nero, affettuoso e squilibrato come solo i gatti sanno essere. L’ho incontrato proprio la prima sera al mio arrivo, e nel corso delle mie settimane nel Sud della Francia, si è trasferito a vivere con me. Arrivava al mattino presto quando aprivo la finestra che portava nel cortile interno che avevo quasi esclusivamente a mio uso, e dopo aver domandato colazione a base di tonno e latte, rimaneva con me fino almeno al pomeriggio. Nelle mie pause lavorative, giocavo con lui che comunque era ancora un cucciolo e non aveva nulla a che vedere con il mercenario da cui prendeva il glorioso nome. Andava e veniva come gli pareva: correva e dormiva e mangiava e ogni tanto veniva a farsi vedere nelle telefonate di lavoro che facevo. Una volta è anche rimasto impigliato nel caso del computer: come abbia fatto a non fulminarsi con l’elettricità rimane un mistero. Ma si sa, i gatti hanno molte vite.
Grazie per riempire il cuore di tutti noi con i tuoi racconti garbati è così reali da farci le emozioni del tuo viaggio così vividamente
Grazie per il commento davvero gentile, cara lettrice. Come si dice, stay tuned, perché siamo solo all’inizio dell’avventura francese 🙂
Mi piace come tu riesci a organizzare la tua vita ritagliandoti tempo e spazio per “vivere altrove” la quotidianità. Io mi sono sempre dovuto “accontentare” di vivere da turista/viaggiatore i periodi trascorsi lontano da casa e in tanti posti mi sarebbe davvero piaciuto potermi permettere di fermarmi un po’ più a lungo e “viverli”, fare la spesa, guardare la TV la sera, lavorare ecc.
Ti stimo
Caro Lorenzo, questa serie di racconti francesi è la storia di un’occasione che raramente mi è successa nella vita. A parte i miei 9 anni irlandesi, spesso, come te, non ho potuto fermarmi in un luogo e viverlo quanto avrei voluto. Ma alla fine l’importante è potersi muoversi, è potersi mettere in gioco. Grazie come sempre dei tuoi commenti 🙂