Mongolia parte 2 ● L’assurdità della Violenza
Lascio Gun Galuut, ma spesso mi sono domandata se quel luogo l’ho lasciato davvero. Ci sono ricordi che rimangono appesi nella memoria per sempre, perchè in qualche modo ci migliorano e ci espandono. Lascio Gun Galuut per andare a Ulan Batoor. L’aspettavo da tanto, la capitale della Mongolia, immaginandomi quali ritmi e valori potessero scandire la vita di quasi un milione di persone in una città così diabolica, e mistica allo stesso tempo. Davanti agli occhi mi passa di tutto mentre entro ad Ulan Batoor: decadenti blocchi di appartamenti sovietici, pire di fumo sporco e intossicante, infinite folle che chiedono la carità, tempi buddisti e architetture moderne, quasi fuori luogo. G il Guidatore mi molla davanti alla Stazione centrale, e l’ultima cosa che mi dice, in inglese stranamente, è “Be careful”. Sto attenta, stai tranquillo G. UB, com’è conosciuta dai locali, sarà lo shock per me che credo negli altri, e non mi arrendo alla violenza gratuita.
Parcheggio lo zaino in una piccola pensione nei pressi della stazione dei treni da cui la mattina successiva avrei preso una nuova connessione verso la Cina. Ho caldo, sete, sonno, fame e sudo come un’anguilla, ma non posso bere l’acqua in camera mia perchè un cartello grande come uno stadio mi ricorda in più lingue che l’acqua non è potabile. Sono le 4 e mezza di un pomeriggio che sarà la mia paura, e lo spavento. Ho visto città più smisurate di questa, ma la prima ineluttabile sensazione che provo mentre esco sulla strada vicino alla pensione è disagio. C’è di tutto davanti a me: bambini che razzolano, macchine sgangherate, vecchi che raccolgono cicche di sigarette spente, negozi sgombrati. Mi sforzo di ricordare elementi positivi, ma non riesco. Sento il disagio crescere, e con un inopportuno senno del poi mi dico che avrei dovuto darmi retta.
La botta arriva come una mina. Bum. Mi sento tirare per il collo, e la sola cosa che riesco a pensare è che la Nikon con un colpo così dev’essere già distrutta. Poi arriva il male, il botto alla gamba, e alla schiena. Non l’ho visto, lui, che ora non mi molla, e mi strattona mentre la vita continua a scorrere come se la violenza fosse la regola, e la normalità. Mi urla in faccia, e non capisco cosa dice, il che rende tutto più complesso. Ha la bava alla bocca, e non mi molla. Allora, sarà la paura, sarà il male, sarà che quest’uomo davanti a me è brutto come il sedere di un cammello, ma gli dò uno strattone, e corro.
Non mi avevano mai presa a calci prima. Dentro di me c’è in quel momento un fastidioso pensiero: perchè mi hai picchiata? Ho visto bambini morire di droga a Mosca, e palazzi semi-crollati contenere vite che non hanno bisogno di ferire per continuare ad andare avanti. Ho vissuto istantanee di amore, e di sorrisi che mi hanno riempito il cuore, lo stomaco e il cranio, e ho capito lingue che non hanno regole grammaticali. Tu invece mi hai servito dei calci freddi e stupidi, nella schiena e nelle gambe, e per di più neanche mi hai rapinata. L’avessi fatto per soldi, per fame, per stanchezza, avrei avuto rispetto di te. L’hai fatto per spaventarmi, e ci sei riuscito, e per questo mi fai pena.
La violenza non porta a niente, chi picchia una donna, un bambino, un anziano stravolge l’amore che questi individui provano incondizionatamente per chi perpetua un atto di volgare strafottenza. La violenza aumenta l’odio, nient’altro, diceva Martin Luther King.
Corro in hotel, ed entrando alla reception mi auguro che la portinaia noti le mie lacrime. Non mi guarda nemmeno, e questa illusione che l’orrore sia la norma mi rende triste. Credo nell’uomo, nel bene, nell’andare avanti a colpi di carezze e risate. In camera, mi spoglio e mi butto nella doccia. Non sono più uscita, di UB non ho visto nulla se non la grettezza dell’accettazione della violenza. Alla sera scendo in reception e chiedo che mi venga prenotato un taxi per la stazione che dista 5 minuti a piedi dalla pensione. La schiena mi fa troppo male per camminare anche soltanto una distanza così breve.
Il mattino dopo alle 5 c’è un taxi sbullonato che mi aspetta fuori dall’hotel. Nella testa mi gira una frase che avevo letto anni prima in un libro, cerco di ricordarmi chi l’ha scritta, ma non riesco: solo gli stupidi, gli stronzi, gli impotenti, gli imbecilli, i frustrati ed i coglioni senza genio e creatività possono trarre soddisfazione e godimento nell’umiliare il prossimo. Appena vedo il taxista ho nello stomaco quella stessa sensazione di fastidio, e so che qualcos’altro di imprevisto sta per succedere, e faccio un grande errore: metto lo zaino nel portabagagli. Dopo quella mattina non l’ho mai più fatto, a costo di tenermelo in braccio e scoppiare. Dopo 3 minuti siamo in stazione. Lo stronzo che ho davanti a me mi dice che a meno che io non sia disposta a dargli l’equivalente di un nulla lui, il bagagliaio, non lo apre. Quanti viaggiatori hai umiliato allo stesso modo? Se dessi retta alla mia indole leonina, gli prenderei la testa e gliela metterei al posto del cambio ma non lo faccio perchè so che davanti a me c’è un uomo solo, sfatto, che la vita ha piegato e ritorto. Gli dico di scendere dalla macchina e mi mettere lo zaino davanti alla mia portiera, in modo che lo possa vedere. Gli dico che gli avrei dato i soldi se avesse fatto così. Scendo anche io dal suo taxi stravolto. Glieli tiro, i soldi, mentre mi carico lo zaino sulle spalle. Sei uno stronzo vero, gli dico in italiano.
I calci che ho preso a Ulan Batoor mi sembrano per un istante indimenticabili. Entro in stazione, poi, e incontro una coppia di tedeschi, ed un belga. Il belga ha gli occhiali da sole, anche se è ancora buio. Quando se li toglie, vedo che ha un occhio gonfio come un carciofo. Ai due tedeschi hanno fregato la macchina fotografica mentre uscivano dal Memoriale di Zaisan.
A cosa serve, la violenza? Da dove arriva la brutalità? Non so dare risposte a domande così profonde, ma decido di credere che la vita è meravigliosa, e carica di scoperte: decido di credere che un aereo da caccia, che lancia bombe, costa come 150 mila quintali di grano. Decido di credere che un calcio, un pugno, uno sberleffo, una presa in giro sono volgari come l’ignoranza e fanno fermentare un mondo che non è rappresentato dalla gioia che ho vissuto ed incontrato nei miei viaggi. Il rispetto e la curiosità sono le bandiere più belle. Da Kabul, Gino Strada una volta ha detto una frase con cui nella mia memoria chiudo il capitolo Mongolia:
“Saranno proprio queste persone, i civili, le prime vittime di questi assurdi bombardamenti. Dal fronte giungeranno nuovi feriti. Già accade sempre, domani un pò di più. Si dovrebbe venire in questi avamposti per rendersi conto dell’orrore della guerra, delle mutilazioni che produce tra la gente, delle stragi senza fine fra i civili. Vorrei che si riuscissero a salvare più vite umane possibili. Vorrei che il mondo dicesse no all’assurdità della guerra”.
questa mongolia skandorina mi commuove..per il racconto in sè.per il genere umano.per la tua arte nel descrivere luoghi tangibili e della’anima,nel dar voce ai sentimenti che a noi viaggiatori da poltrona,rimangono intrappolati nella gola e che tu abilmente sai tradurre in scatti e parole